Al di là dell’apparenza esteriore dell’altro scorgo la sua interiore attesa di un gesto di amore, di attenzione,
[…] Io vedo con gli occhi di Cristo e posso dare all’altro ben più che le cose esternamente necessarie: posso
donargli lo sguardo di amore di cui egli ha bisogno. […] Solo la mia disponibilità ad andare incontro al
prossimo, a mostrargli amore, mi rende sensibile anche di fronte a Dio. Solo il servizio al prossimo apre i
miei occhi su quello che Dio fa per me e su come Egli mi ama.
Benedetto XVI, Deus Caritas est, n. 18
Ho letto “Fontamara” ai tempi del liceo e ne ho serbato a lungo il ricordo di un senso di sconfitta, di resa totale alla povertà che respingevo con ostinazione. Ma dopo il mio nuovo incontro con lo scrittore, avvenuto pochi anni fa grazie al libro Ignazio Silone. Percorsi di una coscienza inquieta di G.P. Di Nicola e A. Danese, ho amato e amo tanto Silone, personaggio scomodo, che sfugge ad ogni possibilità di arbitraria classificazione, un uomo libero. Ecco ciò che più mi affascina in lui: la libertà delle sue scelte, dei suoi errori, che gli sono costati sofferenza, esilio, emarginazione, incomprensione, povertà, solitudine e proprio per questo autentici.
Mi trovo spesso a ripercorrere alcune pagine di Il seme sotto la neve durante il tempo di Natale: Egli è un cafone molto ordinario, solo un po’ più povero, un po’ più disgraziato degli altri. […] Nella stalla scura e immonda in cui mi nascosi a Pietrasecca, egli veniva a trovarmi ogni sera. Ogni sera l’aspettavo. […] Egli si stendeva sulla paglia, tra me e l’asino, qualche volta mi mormorava all’orecchio monosillabi incomprensibili, voleva forse raccontarmi qualche novità, ma il più spesso taceva. Ah, come darti, nonna, un’idea di quell’amicizia semplice muta profonda nata così tra noi? D’abitudine io non percepivo d’Infante che il suo lento ampio respirare; ma tra me e gli altri corpi, gli altri oggetti, di quella caverna
(Infante l’asino i sorci la mangiatoia la paglia il basto dell’asino una lanterna rotta) esisteva un’affinità una comunità una fraternità la cui scoperta m’inondò l’animo d’un sentimento nuovo, che forse, nonna, dovrei chiamare pace.
La stalla, l’asino, la povertà di Infante che sa cogliere ed accogliere un barlume di luce offerto da Pietro con cuore puro e sincera lealtà. A Natale il cielo si abbassa, scende sulla terra, in una grotta dove nasce un bambino, che non sa ancora parlare. Gesù vero Dio si fa vero uomo bisognoso di cure, di essere nutrito, amato dalla Madre che se prende cura. L’accorrere dei pastori è l’inizio di una nuova storia che ricomincia dagli ultimi, Dio ricomincia dai senza nome, dagli anonimi, dagli esclusi che vivono ai margini delle città. Medito lungamente sulla bellezza della gratuità dell’amicizia tra Pietro Spina e Infante. Pietro è un fuggitivo obbligato a nascondersi e Infante scopre il suo rifugio ma non venderà mai l’amicizia di Pietro nonostante la sua miseria.
Mai avrei immaginato, Venanzio, che ci si potesse affezionare tanto a una persona che si conosce appena. Bada, Venanzio, che in questo caso non si tratta di riconoscenza. Certo, egli poteva denunziarmi, tradirmi, in qualche modo vendermi; e data la sua miseria, in un certo senso, sarebbe stato perfino suo diritto. Egli invece mi fu di aiuto. Eppure, ora il mio
attaccamento a quel pover’uomo, t’assicuro, non è gratitudine. È un legame più forte, più disinteressato, qualche cosa come una parentela. Il più povero tra i poveri, un cafone sordo e quasi muto perché nessuno si è mai preso cura di lui, che
vive come le bestie, trova in Pietro colui che lo rispetta nella sua alterità, qualcuno con cui condividere il pane, la quotidianità, un segreto. Pietro Spina comprende le potenzialità del suo nuovo amico represse da una famiglia e da una società che non si è mai occupata di lui, intraprende un’azione pedagogica. Insegnando nuove parole intende però soprattutto creare un rapporto umano, si adatta a chi ha davanti, si dedica a lui e insieme riscoprono e scoprono nel loro andarsi incontro la categoria
della compagnia, della «cumpania» come la pronuncia Infante: cum panis, partecipi dello stesso pane, che non significa semplicemente non stare soli, ma condivisione.
Compagnia è la prima parola che Infante impara da Pietro. Egli sa riconoscere nell’ingenuità di Infante un’intelligenza più profonda, nel corpo sgraziato, sporco, in quel volto adulto che parla goffamente come un bambino una persona; lo rispetta, si fa parola all’altro, non padrone dell’altro ma gioioso servo della gioia dell’amico. L’approccio di Pietro evoca una comunicazione di tipo socratico, maieutico: al guadagno di nuove parole corrisponde una scoperta, il risveglio di un senso di umanità libero dalle logiche di potere e di oppressione, senza tentativi di coercizione, di convincimento, di inganno; propone un’alternativa umana e una resistenza alla disfatta del nulla, del vuoto di senso che annienta l’uomo in ogni sua
dimensione.
Afferma Adrienne von Speyr: Ogni parola partecipa della infinità di Dio e […] egli la può rendere accessibile in modo che le nostre parole la possano comunicare». Nel suo nascondiglio Pietro è costretto al silenzio, all’ascolto di sé e confida alla nonna di non essere più quello di prima, di sentirsi profondamente cambiato. Egli riscopre di non essere dal caso, non di
essere semplicemente in questo mondo, ma chiamato a dover essere, ad esserci per amare, per respirare quell’anelito alla vita buona scritto in ognuno di noi che ci richiama alla nostra profonda verità. Il sentiero tracciato da Pietro è quello della triplice cura: di sé, dell’altro, del Creato.
Durante lunghe ore d’immobilità, ho avuto dunque davanti ai miei occhi, a pochi centimetri di distanza, come unico orizzonte, quel pezzo di terra. La terra non l’avevo mai vista così da vicino. ….. La parola terra, devo dirti, ha preso per me un significato molto preciso; […] La parola terra insomma adesso è per me come il nome di un buon conoscente. […].
Quale avvenimento emozionante fu per me un mattino la scoperta, in quella zolla di terra, d’un chicco di grano in germoglio.
Il ritorno alla terra, alle proprie radici sono per Pietro l’occasione di rinascita, una tregua alla fuga, un graduale rappacificamento con se stesso, con la vita, con il prossimo, nuova opportunità di essere in comunione con il mondo. Si prende cura della vita di quel chicco di grano in germoglio, delicato e fragile. Nel seme della parola, Gesù racconta la vita che si dona, l’esistenza che desidera portare frutto; Parola consegnata e pane spezzato donati gratuitamente.
Dal silenzio la parola può diventare pane per l’altro, linguaggio di amore, di profondità, di presenza all’altro; nell’esperienza amorosa infatti il silenzio è spesso linguaggio molto più eloquente, intenso e comunicativo delle parole. Nel silenzio è insito un meraviglioso potere di osservazione, di chiarificazione, di concentrazione sulle cose essenziali, afferma Dietrich Bonhoeffer. Il silenzio scava in ognuno uno spazio per farvi abitare l’alterità, genera l’attenzione, l’accoglienza, la cura dell’altro.
L’epilogo di questa amicizia porterà Pietro a consegnarsi ai carabinieri al posto di Infante che rischia l’accusa di parricidio. Si offre per un povero e per un meschino, per conservare la libertà a chi è fuori dalle colpe del mondo, in un atto di totale annullamento di sé.
Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici.