Giovanni Giorgio, Studium, Roma 2022. Prefazione di Calogero Caltagirone
Le conoscenze attuali sul cervello, imponendo un mutamento di paradigma, costituiscono una provocazione antropologica, filosofica ed anche teologica rispetto alla tradizionale contrapposizione tra mente e corpo, fisiologico e psicologico, scienze della natura e scienze dello spirito, soggettivo e oggettivo, natura e cultura. Su questa provocazione, attraversando le diverse correnti di pensiero, si concentra il lavoro di ricerca di Giovanni Giorgio, il quale oltre alle attività di docenza universitaria e di studioso, è tra i primi collaboratori della rivista Prospettiva Persona.
Il libro mette in evidenzia la connessione tra le strutture cerebrali e dunque l’intrigo tra le informazioni fornite dalle neuroscienze e dalle scienze cognitive, e l’esperienza soggettiva e intersoggettiva della persona. A questo inestricabile groviglio di influssi reciproci occorre conformare un sapere in grado di coniugare scienza e filosofia, assumendo prospettive antropologiche olistiche e integrate, che combattono la frammentazione specialistica e autoreferenziale dei saperi, troppo spesso dominante nella cultura contemporanea.
L’autore lascia al passato le problematiche relative alla ricomposizione ex post di mente e corpo come due realtà originariamente pensate diverse. Parimenti mette in guardia dai rischi di far slittare l’antropologia verso la biologia e di annegare in una narrazione del mondo in chiave puramente scientifica, abbassando le potenzialità e le responsabilità personali. È in gioco la questione del comportamento intenzionale e degli aspetti valoriali e qualitativi che il soggetto imprime ai suo atti. Infatti tutto ciò che fa capo all’imputazione degli atti e alla relativa responsabilità personale (e di conseguenza al diritto) – su cui ha molto insistito P. Ricoeur, autore di riferimento per G. Giorgio – traballa quando i processi vengono appiattiti su variabili fisiche.
Nella Prefazione, Caltagirone chiarisce i limiti dei modelli prevalenti, partendo da quello che identifica i processi soggettivi mentali a quelli cerebrali e del sistema nervoso centrale, pista che porta all’identificazione dell’essere umano con le sue proprietà neurofisiologiche e dunque alla materializzazione della persona. Nel modello dualista interazionista gli stati psichici e quelli cerebrali sono autonomi e irriducibili ontologicamente, benché interagiscano producendo effetti specifici l’una sull’altra. Questo modello ha il pregio di evitare la trappola del riduzionismo materialista giacché non è il meccanismo neuronale a orientare la sintesi ma l’autocoscienza del soggetto che seleziona e agisce. Nel modello emergentista evolutivo le proprietà delle cose emergono dall’interno e si presentano come nuove e non riconducibili alle parti da cui sono emerse, giacché il dato incontrovertibile dell’evoluzione e della plasticità cerebrale apre a novità inaspettate. La mente umana risulta così irriducibile all’oggettività fisiologica, ma neanche separabile, essendone un prodotto.
L’autore affronta tali questioni in chiave antropologico-ermeneutica evidenziando il costituirsi della persona come unitamente e pluralisticamente cerebrale e cognitiva e dunque abbandonando ogni esteriorità e dualità mente corpo: «il corporeo e il mentale vengono non solo ‘messi in relazione’, ma anche intrinsecamente pensati e mostrati nel loro reciproco costituirsi relazionale originario» (p. 3). Il libro pertanto è una messa in guardia rispetto alla esaltazione della dimensione cognitiva che non tiene conto della persona nella concretezza del suo io. Del resto alla luce delle ricerche contemporanee non si può parlare della mente in modo da individuare processi universali puri che non si attagliano alla singolarità della persona; «la mente in sé non esiste», se la si decurta dei suoi intrinseci legami col quel corpo, quelle emozioni, relazioni, esperienze vissute nel tempo che le è dato (p. 201).
La cultura postmoderna non è affatto esente dallo slittare tacitamente nel peccato originale del naturalismo, paradossalmente coniugato da una parte con il soggettivismo e dall’altra con l’appiattimento del soggetto nei sistemi autoreferenziali. L’autore si rivolge a L. Pareyson e al suo connotare la persona col carattere dell’esistenza nel concreto delle situazioni e delle relazioni vissute, che mediano la sua conoscenza del mondo chiamando a coglierne il senso e a prendere posizione. Le situazioni infatti motivano la persona ad agire lavorando su ciò che le è dato pur trascendendolo. La conoscenza perde il suo trono alto e solitario, giacché alla persona non è dato di avere una conoscenza esaustiva della realtà quasi potesse vederla e giudicarla da un punto esterno ed oggettivo. Essa è ‘gettata nel fiume della storia’, abita un orizzonte determinato e a questo orizzonte è chiamata a dare senso. Non è possibile conoscere sfuggendo alla difficoltà di dover approcciare la persona nell’unità integrata di fattori cerebrali, biospisichici, sociali, spirituali e del resto l’agire umano va ricondotto alla responsabilità di un soggetto cosciente e agente in grado di dare senso, unificare e agire di conseguenza.
Il volume è denso di argomentazioni, documentato, lontano da soluzioni frettolose che scadrebbero in sintesi posticce. L’autore accetta la problematicità della tensione tra componenti che interagiscono e che ogni singola persona è chiamata a dirimere nel vissuto esistenziale che la connota. Egli non si sottrae al rapporto persona-essere che consente di andare oltre la soggettività di quella modernità che pretende di autofondare la coscienza. La persona è ‘vitalmente inserita nella morsa dell’essere’, il che implica che la sua identità non è separabile dal legame ontologico con l’essere, in un rapporto che va letto sul registro dell’essere-in e non dell’essere di fronte come col mondo. Per ogni ambito a cui la persona si volge le è data una capacità ermeneutica che anche se non può pretendere di dare spiegazioni esaustive le consente di interpretare il mondo in modo innovativo e singolare.
Avere coscienza di sé non significa avere conoscenza di sé, giacché la propria identità s’impara e si costruisce gradualmente nel mosaico delle scelte effettuate e narrate. La narrazione dà corpo alla storia singolare e purtuttavia onni-riconoscibile del vissuto di ciascuno la cui fisionomia risulta sempre aperta a rinnovate comprensioni di sé e del mondo, al contempo innovative e fedeli (si pensi all’idem e all’ipse di Ricoeur) che s’intrecciano con le storie e le narrazioni che altri danno del mondo e dell’io. Si tratta di interpretazioni che in quanto non universali sono fallaci? Per il nostro vi é una solidarietà originaria tra persona ed essere che garantisce una verità interpretata e intesa come compito: nella situazione in cui ciascuno si trova può definire la sua strada, la sua missione.
La ricerca di G. Giorgio che va dalla mente alla persona lo avvicina a Pareyson, che parla di formatività per tutta l’esperienza umana e in specie per l’arte, ossia un fare che mentre fa inventa il modo di fare. Non dunque un’adesione incondizionata a leggi e regole generali, ma singolarità di un compito di produzione che delinea la buona riuscita di una vita, meta che non può essere sottratta ad alcuno. L’autore conclude: «La vita riuscita di una persona è questo corrispondere tra il compito da essa assunto per sé nell’interpretazione della verità dell’essere situata e la produzione di sé come opera» (p. 210).
Giulia Paola Di Nicola