Tra la varietà degli aspetti del poema dell’Ariosto che si potrebbero esaminare e ai quali porre domande mi sembra particolarmente intrigante l’analisi di che possa dire questo affascinante arazzo dell’ Orlando furioso, intessuto nello splendido Rinascimento, al nostro Duemila aggrovigliato e anche oscuro. Del resto, tutti sappiamo che un classico è tale proprio perché il suo fascino non si esaurisce con lo scorrere del tempo ma vive anche dopo l’inattività segnata dall’interruzione viitale dell’autore. A tal fine, ho svolto alcune riflessioni su questo geometrico volo della fantasia che è il poema di messer Ludovico.
Ariosto apparentemente non è un grande innovatore, perlomeno non un rivoluzionario: sceglie con il poema un genere tradizionale di scrittura, un grande contenitore narrativo modificato nel empo secondo il modificarsi del costume e adatto al suo pubblico di corte, perfettamente inserito negli schemi sociali e intellettuali del suo tempo. E tuttavia, se volgiamo lo sguardo alla sua personalità, ci colpiscono alcune caratteristiche notevoli per la diversità rispetto al cliché dell’intellettuale tradizionale. Ariosto vive una vita non avvolta da quella sacralità della scrittura che appariva in Petrarca ma occupata e misurata dalle incombenze della vita comune famigliare e sociale con le sue fatiche, gli impegni e i problemi di accettazione quotidiana. Lo vediamo bene nella sorridente amarezza delle sue Satire. In questa chimiamola normalità, già ci appare una prima prssimità all’autore moderno. Quello che però è quasi prodigioso in lui è la capacità di restare fedele a se stesso senza partire lancia in resta contro i condizionamenti esterni, quella sua leggerezza nel mantenere una interiore libertà senza strombazzamenti eroici attraverso la mirabile competenza della complessità del mondo e degli uomini, con il la difesa sempre presente del senso del limite umano attraverso uno sguardo razionale. E allora in questa sua lucidità della ragione appare la fondamentale distanza da un tempo come il nostro, dove la cultura cede spesso all’ebbrezza della spettacolarità.
Tuttavia, da questo poeta che non si può considerare nostro contemporaneo (e non solo per lontananza temporale) e da questo poema che pare più lontano dalla nostra terra come un’aerea mongolfiera sopra il nostro cielo, emerge una notevole possibilità di trovare confronti e perfino similarità con i nostri orizzonti .
Se proviamo a partire dall’osservazione del contesto nel quale si svolgono la vita e la scrittura di Ariosto, potremmo definirlo epoca della contraddizione. Una contraddizione tra la grande fioritura artistica dell’Italia da una parte e dall’altra il suo declino politico nel cedimento sempre più rischioso ai poteri forti di Spagna e Francia. Qualche similarità nel nostro tempo per il contrasto tra la collocazione ancora storicamente prestigiosa dell’Italia nel collocamento europeo e la sua crescente marginalità economica minata da sclerotizzazioni, incertezze politiche e inaffidabilità finanziarie. Si manifesta quindi una comune atmosfera dell’ambivalenza e duplicità.
Su un altro piano vediamo similarità più nette, pur nelle particolari sfumature: nell’epoca dell’Ariosto assistiamo all’aprirsi spaziale degli orizzonti dopo la scoperta dell’America, un allargamento che sembra quasi rispecchiarsi nella vastità geografica del poema attraverso i mille luoghi prevalentemente europei attraverso i quali si dipanano le avventure dei cavalieri. Luoghi reali come Parigi, Lipadusa, l’Africa, il nord Europa con Anversa e le Ebridi ma anche favolosi spazi orientali come il Catai, fantastici come l’isola di Alcina, il castello del mago Atlante e, perfino, ultraterreni come la Luna, l’inferno ecc. Un universo globale come il nostro ma non più teocentrico come quello di Dante e dove tutto si muove e trascorre nello spazio e nel tempo con rapidità e mobilità infinite, certamente inferiori rispetto al nostro spostarci telematico ma, comunque, un mondo aperto Aperto non solo nella dimensione spaziale ma anche nella valutazione etica. Difatti niente è più aperto all’accettazione delle diversità e della molteplicità delle tipologie umane dei personaggi ariosteschi: la fedeltà di Bradamante e la volubilità di Angelica, l’amore dolce di Isabella e quello sensuale e ingannatore di Alcina, la cortesia cavalleresca di Rinaldo e il progetto utilitaristico di Sacripante e, nella stessa Angelica, l’autonomia decisiva e il sottoporsi naturale all’idea di donna come oggetto di desiderio. Sembrano infinite queste antinomie e duplicità umane nel quadro della convivenza armonica tra il quadro epico della lotta di civiltà del modello letterario da una parte e dall’altra parte la convivenza tra opposte culture con la prevalenza dell’ eroismo non collettivo ma individuale, dominato da desideri terreni mobili e talora volubili.
In questa cornice di armonica relatività dei valori umani si delinea sempre più un universo non medievalmente teocentrico ma antropomorfo. E’, naturalmente, una visione del tutto laica nell’accettazione di tutte le diversità dello sguardo naturalistico. Un naturalismo che si coglie con immediatezza nella visione della donna e nella concezione dell’amore. Si tratta allora di una visione edenica e trionfalistica dell’uomo che potrebbe essere infinitamente lontana dalle angosce dei nostri tempi? Assolutamente no: brividi e crepe sulla bellezza della vita umana e sui poteri dell’uomo appaiono ad ogni istante; a partire già dalle infinite difficoltà della quete cioè della ricerca che muove le avventure: difficoltà che spesso sono gli intrecci del caso così ben emblematizzati nei labirinti del palazzo di Atlante e poi anche le attese deluse delle ricerche deviate dagli imprevisti già nella selva degli inseguimenti e forse soprattutto nel trionfo sì della razionalità, insidiata però dalla follia che di Orlando deturpa perfino la dignità estetica di cavaliere. Un pessimismo, certo, molto legato alle inquietudini dei tempi ma non esaurito in una sola figura emblematica perché il confinamento del senno in un mondo alieno alla terra, nella Luna, dove Astolfo vola a recuperare il senno di Orlando, dice molto dello sguardo consapevole di tempi oscuri che si preparano per gli stati e per il territorio italiano.
In questa visione con al centro l’uomo possiamo vedere tutto tranne un ottimismo trionfalistico. E tuttavia non c’è la resa alla disperazione perchè la capacità di adattamento (resilienza e resistenza ma anche mobilità evolutiva o distrattiva) crea capacità di muoversi tra gli ostacoli. La regia sapiente del’entralecement da parte dell’autore fa ritrovare il filo della vita nell’affollarsi delle sorprese negli intrichi del caso, il senso del limite e del codice genetico umano rende capaci di comprendere e conoscere la legittimità del vario pensare. D’altronde, quello che è negativo e precluso al mondo ariostesco è proprio la rigidità del pensiero unico, dell’atteggiamento razzistico ( Rodomonte è africano ma altrettanto eroe quanto Orlando), del leaderismo prepotente (tutti gli eroi sono quasi sullo stesso piano ), della violenza contro la donna pur desiderata nella sua bellezza.
Ed ecco perché mi sembra che si possa dire che questo poema non possa definirsi attuale, perché lontano da noi non solo per le modalità tecnico-produttive o per i sistemi politici e i costumi di vita, ma anche per una cultura basata allora sull’approccio raziocinante così diverso dai nostri modelli di spettacolarità emotiva. Ma da esso può venire una lezione utile al nostro tempo che a volte sembra stia percorrendo un pericoloso crinale di culture e poteri arroganti, di affermazioni pesantemente asseverative non discorsive (l’esilio crescente del congiuntivo dice già qualcosa), di tentazioni particolaristiche, di una gara continua dei vari poteri a costruire sopraffazioni materiali e mentali. Una lezione che possa riconquistare le nostre menti al sentimento del limite nelle pur talora giuste ambizioni umane, una spinta al gusto della varietà umana, al riconoscimento dei diritti non solo individuali ma anchecollettivi, all’uso intelligente e rispettoso della ragione e, soprattutto, alla curiosità e al rispetto del diverso da noi nell’acquisizione profonda che la bellezza dell’umanità sta in tutta la sua libera vastità e varietà.
L’immagine in evidenza è una xilografia del sec.XVI, in World History Archivie