Tanto si è detto e scritto sulla tragedia greca (da Untesteiner a Wilamowitz, da Dodds a Perrotta, da Del Corno a Montanari) e il mio contributo non può aggiungere nulla di nuovo. Tuttavia, vorrei porre l’accento sulle molte connessioni che ho rintracciato tra La Poetica di Aristotele e la Nascita della Tragedia di Nietzsche. Focalizzerò il mio intervento soprattutto sul dionisiaco e l’apollineo.
Si suole parlare in genere dell’origine della tragedia e su questo si sono concentrati gli studiosi moderni, Aristotele e Nietzsche parlano invece di nascita della stessa, come di un fenomeno letterario che fiorisce ed è destinato a perire. La tragedia infatti ha breve durata – circa 70 anni: tanti sono quelli che separano I Persiani di Eschilo dalle Baccanti di Euripide – e nessuno mai è riuscito a riprodurre forme e contenuti di quella che viene considerata la più alta manifestazione della cultura occidentale. La tragedia nasce (ghenomène, per usare il termine aristotelico) in un preciso contesto dell’Atene democratica con una peculiare funzione politico-religioso-pedagogica e il suo fiorire di breve durata la rende folgorante intuizione e messa in scena del dramma umano, che si dibatte tra libertà e necessità.
L’uomo del V sec a. C, attraversato da pessimismo nonostante la rivoluzione antropocentrica di Protagora9 (Uomo misura di tutte le cose), non può non riflettere sulla profonda ambivalenza della condizione umana che nulla può contro la volontà degli dei. Per Sofocle non è “l’uomo misura di tutte le cose” bensì il dio.
Sicché l’eroe tragico incarna la dimensione umana, che nell’arco di un giorno vede capovolgere il suo destino. In un sol giorno si è ribaltata la vita di Edipo, in un sol giorno sono morti per duplice strage Eteocle e Polinice. La circoscrizione temporale, insieme a quella dello spazio e dell’azione, crea un concentrato emozionale, per cui non si può che provare “pietà e terrore”. I termini aristotelici, poi ripresi da Nietzsche, ben individuano i sentimenti scatenati dal tragico greco, rispetto al quale lo spettatore attua una identificazione differenziata. Azioni pietose sono, a ben vedere, gli omicidi che si consumano tra le mura domestiche: sono queste che scatenano sentimenti di “pietà e terrore”, per cui lo spettatore non può che piangere e tremare, in un processo di identificazione, da cui si differenzia. Chi non proverebbe, infatti, pietà per Edipo, ma soprattutto chi vorrebbe esserlo? Un solo giorno è bastato perché il destino scombinasse le carte: lui che era il più amato, il più saggio, il più potente, re di Tebe, diventa il rifiuto della società, colui che ha scatenato la peste con le sue nefandezze.
E’ l’incarnazione del titanismo dionisiaco della dismisura; in lui il principium individuationis di cui parlano Aristotele, Nietzsche e Schopenauer è entrato in crisi, facendolo in mille pezzi.
Ma cosa è il principium individuationis? Secondo Nietzsche, venuti al mondo, siamo gettati nel mare magnum delle esperienze. E’ il principium individuationis , che ci identifica come individui con specifiche peculiarità e unicità, a farci sopportare il bagaglio esperienziale e a farci selezionare gli eventi attraverso lo spazio-tempo, per cui nella nostra unità psico-fisica, ricordiamo il gradevole e dimentichiamo lo sgradevole (il che rende la vita sopportabile).
Questo fa capo ad Apollo, il dio del sogno, delle arti figurative e della medicina. Apollo mette ordine, dove Dioniso scombina. Il primo è intelletto (principio ordinativo) il secondo istinto ed ebbrezza. Quando il principium viene meno Dioniso ha libero campo, la dismisura si impossessa dell’uomo, soprattutto negli stati alcolici e in primavera e quel povero uomo si dibatte nel tentativo, spesso vano, di ridare ordine alla propria esistenza. Sventurato è Edipo, in preda al dionisiaco, con un’unica colpa: l’aver supposto troppo per sé. Lui, il primo, diventa uno scarto sociale: uccide il padre Laio e sposa la madre Giocasta, da cui ha quattro figli. Lui è l’eroe della dismisura, che per aver preteso troppo, tutto deve sopportare. “ Meglio non esser nati o morire al più presto”: questo pensa il pessimismo greco, soprattutto quando si compie, come nel caso di Edipo, un oracolo avverso.. Edipo è segnato dalla nascita e tutto può la dea Necessità, rispetto alla quale nulla può l’uomo. L’uomo pensa di essere libero, ma in realtà è prono alla volontà degli dei: il dio è misura di tutte le cose. E così egli è colpevole di tutto e responsabile di nulla.
La tragedia greca è dunque quel luogo in cui Dioniso prende il sopravvento, nell’arco di un giorno, in un palcoscenico circoscritto con tre attori; altissima è la dimensione emotiva che si vive durante le sacre rappresentazioni, che conduce lo spettatore, in un procedimento psicagogico, a riflettere sui limiti dell’uomo che nulla può se non assecondato dalla volontà divina. Opera politica, religiosa, pedagogica che forma il cittadino da un punto di vista etico. Egli empaticamente vive quanto rappresentato e ne deduce che davvero misera è la condizione umana, se i più efferati delitti si compiono tra le mura domestiche.
Che Dioniso sia il protagonista della tragedia si desume da quanto detto anche da Aristotele e Nietzsche. Nel VII libro della Poetica Aristotele parla del tò satyricòn come nucleo da cui è nata la tragedia che prende origine da coloro che intonavano il ditirambo, canto corale in onore di Dioniso. Passo trascurato dalla critica che non intende riconoscere l’origine popolare della più alta manifestazione della cultura occidentale. Che da qui tragga origine il tragico si legge anche in Nietzsche, che pone la fine della tragedia con Socrate ed Euripide, che tendono ad eliminare dalla vita l’elemento satiresco e dionisiaco, il primo con il suo intellettualismo etico e il secondo con il ridimensionamento della parte corale.
A ben guardare, la tragedia, di breve durata come sopra detto, ha ragione di esistere nel conflitto tra libertà e necessità, nel senso di colpa che dilania l’uomo senza essere responsabile di nulla.
Quando Socrate affermerà che la conoscenza del bene non può che produrre bene e che quindi l’uomo è responsabile delle sue azioni, la tragedia si dissolverà, segnando il punto di confine tra la civiltà della vergogna e quella della colpa.
Con l’assoluzione di Oreste da parte dell’Areopàgo ci sono già le premesse della fine del tragico, perché la giustizia degli uomini si sostituisce a quella divina, anche se è Atena a spareggiare, mentre la struttura della tragedia può sussistere finché gli dei possono fare scempio dell’uomo.
A conclusione, sostengo dunque che è Socrate ad ammazzare la tragedia, riconsegnando all’uomo la responsabilità della sua condotta di vita. Per questo è il filosofo più inviso a Nietzsche, che mai ha gradito la sua ironia.