Guendalina Di Sabatino, Edizioni Smasher, Barcellona, 2021.
Della violenza di genere e degli stereotipi sessisti Guendalina Di Sabatino si occupa da tanti anni, sia con il suo impegno politico nella sinistra, sia come presidente del Centro di Cultura delle Donne Hannah Arendt, sia con vari progetti di scrittura svolti nell’Università di Teramo. Ricordo in particolare il seminario Amore e violenza: alle radici della cultura patriarcale, da lei organizzato con la partecipazione di Lea Melandri e Stefano Ciccone sulla dipendenza affettiva, l’interiorizzazione della visione del mondo e le costruzioni di genere. Infaticabile anche nel coinvolgere le nuove generazioni delle scuole secondarie superiori in un lavoro su sé stessi di presa di coscienza del problema e di assunzione di responsabilità: iter indispensabile per uscire dal problema, come attestano le sei testimonianze di vita non romanzate ma realmente vissute dalle protagonste e riportate in quest’opera dall’autrice in forma di docu-saggio, dopo un lungo lavoro di confidenze, ascolto e trascrizione durato anni.
Il titolo Chiamatela Venerdì è tratto dall’imperativo categorico della prima storia riportata secondo il racconto di una donna che avrebbe dovuto chiamarsi Venerdi per ordine del nonno, suocero della madre che dalla famiglia del marito subiva violenze fisiche e psicologiche.”Dono della vita”, nella traduzione italiana, fu invece il nome che la protagonista, nata in Kosovo e profuga di guerra in Italia nel 1999, ricevette grazie alla madre, in una delle rare occasioni in cui la sua volontà potè prevalere su quella dei padri-padroni di casa. In calce alla narrazione della sua vicenda,”Dono della vita” ci “dona” una preziosa riflessione che può aiutare a comprendere il silenzio e la mancata o tardiva denuncia degli abusi che spesso accomunano queste storie: Secondo me, le donne che subiscono violenza dai loro mariti o compagni non li lasciano perchè hanno paura di rimanere sole. Se io non avessi fatto il percorso psicoterapeutico, forse avrei sposato il mio fidanzato violento.
Oltretutto, la scelta di uomini abusanti tende a replicarsi per le donne che da piccole hanno assistito a scene di prepotenza familiari subita dalle madri, come i maschi tendono a riprodurre lo stesso clima di soprusi respirato e assorbito tra le mura domestiche. Questo è come un fil rouge che percorre tutte “le storie di quotidiana violenza domestica” ma il vero nodo centrale che aggrega le esperienze vissute da Venerdì, Liana, La figlia di Aida, Dalila, Elvia, Gabriela nata Yuri, è da ravvisare nell’ambiguo e “insospettabile”rapporto amore-violenza. Queste donne maltrattate ne sono uscite solo grazie ad un percorso psicoterapeutico con cui hanno intrapreso la via verso l’autocoscienza, l’unico mezzo autoliberatorio perchè rafforzando l’autostima e la volontà, permette di ribellarsi ad un amore malato.
Bisogna infatti acquisire la consapevolezza che un amore violento è malato, e da Freud in poi gli psicologi ne ravvisano la radice nel desiderio di possesso che si origina nel rapporto madre-figlio, che non sempre si risolve con la conquista dell’autonomia e non sempre il taglio fisico del cordone ombelicale corrisponde alla rescissione psicologica. Il sociologo Stefano Ciccone, fondatore e presidente dell’Associazione Nazionale Maschile Plurale, senza negare l’incidenza di questo rapporto, punta però maggiormente l’accento sul contesto di una società dalla cultura ancora profondamente patriarcale, maschilista e basata sulle differenze di genere e di ruoli, malgrado l’evoluzione. Nella prefazione a questa raccolta di biografie dalle diverse voci, tutte narranti in prima persona, Ciccone sostiene la necessità di superare generi e ruoli coinvolgendo gli uomini nella “questione femminile” che dovrebbe essere sentita più come una “questione maschile”, nel senso che gli uomini dovrebbero impegnarsi in una diversa gestione delle emozioni e delle relazioni.
E bisognerebbe sfatare anche alcuni miti – osserva nella prefazione Di Sabatino – che portano spesso le donne a idealizzare l’amore sognando un”amore romantico”che genera fusione con l’altro ma anche dipendenze reciproche, nei quali la donna soccombe nel sacrificio di sè, confondendo l’amore con gli insulti, con il controllo, con la gelosia ossessiva, con la violenza fisica…La dedizione, quale forma di appartenenza intima ad un altro essere, quale idea di essere “due in uno”, è violenza invisibile che vincola.
Nella postfazione Lea Melandri, promotrice della Libera Università delle Donne di Milano e attivista femminista, parla della ambiguità di un dominio, come quello maschile, che passa attraverso le vicende più intime:la sessualità, la maternità, le relazioni familiari, che si nutre dunque della complicità e dell’asservimento della donna, finchè non intervenga un processo di emancipazione che può portare alla separazione. E i femminicidi avvengono quasi sempre in occasione di separazione. Allora dobbiamo dire che è la libertà delle donne che fa paura, non solo come perdita di un privilegio, o come ferita narcisistica della virilità. Deve esserci qualcosa di più profondo. Quello che emerge è la fragilità e la dipendenza maschile.