Il 27 Aprile 2022 la Corte costituzionale presieduta da Giuliano Amato ha riconosciuto alle donne italiane il diritto – finora negato dall’articolo 262 del codice civile – di dare ai figli il proprio nome. E’ un principio tanto atteso e che giunge in ritardo rispetto per esempio alla Spagna – e in generale ai paesi dell’America latina (a parte qualcuno) – in cui vige la regola del “doppio cognome”, per cui i figli portano il primo cognome di entrambi i genitori, assicurando così sia il ramo materno che quello paterno.
Dandone notizia la Corte costituzionale ha spiegato che d’ora in avanti «la regola diventa che il figlio assume il cognome di entrambi i genitori nell’ordine dai medesimi concordato, salvo che essi decidano, di comune accordo, di attribuire soltanto il cognome di uno dei due. In mancanza di accordo sull’ordine di attribuzione del cognome di entrambi i genitori, resta salvo l’intervento del giudice in conformità con quanto dispone l’ordinamento giuridico». Dunque non si può più continuare con l’automatismo del cognome del padre ai figli, assecondando una tradizione giuridica costruita sulla figura del “pater familias” e sul suo potere educativo (comprensivo delle correzioni su moglie e figli: jus corrigendi).
Non è il caso di sottovalutare questa questione, come purtroppo anche non poche donne fanno. Nella mentalità comune la linea paterna rimane dominante e decisiva, frutto di un costume duro da sradicare, come si manifesta per esempio quando alla donna incinta si rivolge l’augurio: “Auguri e figli maschi”, i quali soli garantirebbero la discendenza familiare e un tempo anche patrimoniale. Mentre le donne sono da secoli abituate a perdere la titolarità del cognome e la sua trasmissibilità ai figli, gli uomini restano fortemente attaccati a quello che considerano garanzia di virilità e paternità (Mater semper certa est, pater numquam) e identificativo della continuità del casato. Il cognome è una questione di potere e autorevolezza che ricalca il meccanismo omissivo e cancellatorio del ruolo delle madri. Che dire poi del Vangelo stesso (cf Mt 1, 1-16 e Lc 3, 23-38) che, riflettendo la cultura ebraica, elenca la discendenza di Gesù per via solo maschile, anche se Gesù è figlio di Maria senza concorso di padre?
È da oltre quarant’anni che in Italia si discute sul tema: ci sono state sentenze e convenzioni internazionali ratificate dall’Italia, richiami e raccomandazioni delle istituzioni europee, disegni di legge mai discussi e altri mai approvati. Si è rimasti fermi alla norma implicita di trasmettere il solo cognome paterno. La Corte europea dei diritti umani – a cui una coppia si era rivolta dopo ripetuti rifiuti delle richieste di poter dare alla figlia il cognome della madre – nel 2014 condannò l’Italia, stabilendo che l’attribuzione automatica del cognome del padre rappresentava una discriminazione basata sul sesso (cf art. 14 e art. 8 della Convenzione europea sui diritti umani).
Già nel 2016 la Corte costituzionale italiana (sentenza 286) aveva stabilito che la preclusione «per la madre di attribuire al figlio, sin dalla nascita, il proprio cognome» pregiudicasse «il diritto all’identità personale del minore» e, al contempo, costituisse «un’irragionevole disparità di trattamento tra i coniugi». La diversità di trattamento dei coniugi veniva dunque considerata «espressione di una superata concezione patriarcale della famiglia e dei rapporti fra coniugi», incompatibile “con il principio di uguaglianza” e con quello della “pari dignità morale e giuridica”.
Dal 2017 è divenuto possibile affiancare il cognome materno a quello del padre se entrambi i genitori sono d’accordo, attraverso una procedura amministrativa stabilita dal ministero dell’Interno. Tuttavia il cognome materno andava assegnato per secondo, senza poter scegliere solo il cognome materno. In caso di disaccordo, continuava a prevalere l’attribuzione del solo cognome paterno.
Nel frattempo si sono sviluppate campagne di sensibilizzazione, animate da giuriste, costituzionaliste, attiviste dalle Commissioni parità (ricordo i congressi che io stessa ho promosso sul tema come vicepresidente della Commissione regionale parità, altre al dossier su “Prospettiva Persona” nel 2005). La maggioranza delle proposte ha puntato sul principio della libera scelta di comune accordo tra genitori: uno solo o entrambi i cognomi, nell’ordine preferito. In mancanza di accordo sul numero dei cognomi o sul loro ordine, si suggerivano entrambi i cognomi seguendo l’ordine alfabetico.
Prevedibili le critiche, sempre all’assalto quando si teme la spallata a tradizioni androcentriche considerate inamovibili. Cosa succederà alla seconda generazione? Si rischierà di avere una pluralità confusionaria di cognomi? Accadrà che i figli di uno stesso nucleo familiare avranno cognomi diversi? La sentenza avrà valore retroattivo? Si cambieranno i cognomi già attribuiti? Tra i più contrari il senatore leghista S. Pillon: «il cognome paterno non è da considerare come un retaggio patriarcale, ma come il regalo più prezioso che un padre possa fare ai figli. La madre dona il corpo, il padre consegna l’appartenenza ad una storia, ad una comunità, ad una famiglia». A suo avviso non è «una conquista di civiltà ma un ulteriore passo verso l’oblio della propria tradizione e in definitiva verso la dissoluzione della famiglia”.
La Corte costituzionale ha messo fino a queste recriminazioni (ma il Parlamento dovrà farsi avanti per modificare l’articolo 262 del codice civile): la sola genealogia del cognome paterno è «discriminatoria e lesiva dell’identità del figlio». I genitori potranno scegliere – novità – anche solo quello della madre.
Non mancano quanti accolgono con entusiasmo la nuova legge. Del resto, due fidanzati che decidono di mettere su famiglia devono accordarsi su una miriade di scelte, come il luogo di residenza, lo stile di vita, la città. Ogni scelta implica la capacità di ascoltarsi, concordare, talvolta scontrarsi, prima di raggiungere un’intesa. Non c’è ragione per cui non debbano scegliere insieme anche il cognome della famiglia acquisita, mantenendo ciascuno quello della propria famiglia ascritta. Oltretutto c’è da tener presente che alcune coppie gioirebbero di poter scartare un eventuale cognome ridicolo, offensivo, cacofonico, gravido di evocazioni volgari oppure di una genealogia in cui compaiono personaggi imbarazzanti e tare che potrebbero danneggiare il buon nome della coppia e dei figli (per esempio parenti folli, disonesti, criminali). E ancora: come non empatizzare e dare soddisfazione a quelle madri abbandonate dal marito, che hanno cresciuto in solitudine i figli, debbono sentirli chiamare, giorno dopo giorno, col cognome dell’autore delle loro sofferenze?
Una scelta concordata richiede la capacità di vivere in coppia, non solo perché si abita sotto lo stesso tetto e si condividono intimità fisica e figli, ma soprattutto per quella disposizione a dialogare, a fare qualche rinunzia, talvolta anche scontrarsi, per giungere poi a un’unità rispettosa delle differenze e dell’uguaglianza.
Giulia Paola Di Nicola