A volte ti si apre un mondo e anche la vita personale acquisisce un nuovo senso; non ti senti più solo sotto il cielo che diventa sempre più nero, in questo secolo buio. E’ quello che mi è capitato entrando in contatto con il travaglio di una vita che si fa filosofia e poesia di Rachel Bespaloff. L’agile contributo, edito nell’ottobre 2018 da Adelphi, tradotto da Simona Mambrini, Sull’Iliade, è quanto di più folgorante abbia mai letto sull’opera di Omero; lo dico da docente di greco da decine di anni. Il pensiero è subito corso all’omonima opera di Simone Weil, con la quale Bespaloff condivide non poco, a partire dalla comune origine ebrea, all’esperienza parigina, alle amicizie condivise, al trasferimento coatto negli Stati Uniti. Le coincidenze biografiche e intellettuali sono di tal rilievo che si è parlato ben a ragione di vite parallele, eppure le due filosofe non si sono mai incontrate. Bestaloff però prima di consegnare alle stampe il suo studio Sull’Iliade nel 1943 lo ha ben messo a punto per non incorrere nell’accusa di plagio dell’opera di S. Weil del 1939, vista la condivisione dello stile vibrante di pathos e di contenuti influenzati concettualmente dal contesto storico bellico e nazista in cui le due si trovarono a vivere e a subire. Inoltre, mentre è certo che Bestaloff è morta suicida, sospetti cadono su S. Weil che certo non fece nulla per sottrarsi alla morte, venendo meno alle cure necessarie. Che entrambe non abbiamo sopportato di essere sopravvissute agli orrori del nazismo, come è occorso all’ altrettanto geniale e profondo torinese Primo Levi?
Quel che è certo è che i due approfondimenti critici delle filosofe ebree sull’opera di Omero sono espressione alta della loro riflessione sull’ Essere e sul Divenire dell’uomo nella storia, sul centro vitale del loro pensiero, sul tema che le accomuna a Nietzsche, e che si può definire la crux philosophorum. Tale riflessione ha una forte impronta storica, non immune dal condizionamento di aver vissuto in un’epoca in cui violenza, colpa, responsabilità dell’orrore, barbarie la fanno da padroni. Si suole dire che l’opera di Weil ha al centro la forza e quella di Bespaloff la resistenza, incarnata da Ettore, il vero eroe che perde tutto tranne la dignità. Io direi che entrambe le opere esprimono la vanità della forza, che cadono le trincee tra vincitori e vinti, che tutti risultano vinti, preda della sete di dominio.
Che i vincitori di oggi sono i vinti di domani, annullando verghianamente la fiumana del progresso, risulta pateticamente lampante nell’opera di entrambe, ma, concentrandomi su Bespaloff, direi che non vince Ettore e non vince Achille: entrambi si portano dentro la caducità dell’Essere, pur nella differenziazione tra la dignità dell’uno e la brutalità dell’altro. Solo la poesia rende eterno ciò che perisce, e consente nel perdono la contemplazione alla Tolstoj della sovrapposizione Verità/ Bellezza. Quanta bellezza c’è nel corpo di Ettore restituito al padre Priamo, quanta ricomposizione degli opposti nel Tutto/Uno in quel “soma” tornato intatto per la protezione degli dei, specie Apollo, e per la bravura del cantore Omero! E’ la poesia che eleva il suo canto attraverso la prosa poetica della filosofa ebrea, nata in Ucraina, e se la sua parola vibra lo deve all’ispirazione divina del rapsodo più grande. Oso dire che un dio parla attraverso l’opera di Bespaloff e risuonano le sue parole nell’etere e arrivano a pungere il cuore, la mente, quando tutti, nessun escluso, cade nel senso di colpa e di responsabilità, anche in un’ epoca, quale quella micenea, chiamata “della vergogna”, in cui sembra che l’uomo non sia faber fortunae suae, perché oggetto della volontà divina. Eppure questo è il paradosso: l’uomo non è responsabile di nulla e colpevole di tutto, mentre gli dei sono responsabili di tutto e colpevoli di nulla.
Tragico è per la filosofa il destino dell’uomo; eroina tragica è Elena: strumento della volontà divina e pur colpevole, lei è l’incarnazione dell’impossibilità di vivere in autonomia, soggetta alla dea Afrodite. Bellissima e infelice, incanta tutti i maschi di Ilio e di Grecia, lei la rea, la cagna, la sgualdrina…lei la causa della guerra di Troia, pur instrumentum deae. Sostiene infatti, la filosofa, che al di là di tutte le interpretazioni storico-economiche, le guerre antiche si combattono per le donne e a causa di queste. Cosa c’è di più tragico di essere non svincolabile dall’arbitrio divino? Le donne, come Elena, come Cassandra, sono le più devastate dalla volontà degli dei. Eppur si legge qui e lì nella storia il riconsolidarsi degli affetti più veri, come quello che lega la peccatrice a Ettore, l’unico vero principe troiano, l’unico degno tra i tanti scoloriti figli di Priamo, un Priamo che assolve Elena dalla colpa feroce che dentro la dilania: tanto bella quanto disperata. Gli affetti nell’opera di Bespaloff contengono anche i sentimenti più feroci, come quelli nutriti da Achille: di fronte a Teti, questi si placa, pur consapevole di non poter sfuggire al destino di morte. E come è materna la ninfa, come si piega con dolore ad abbracciare la nera moira del figlio, come è vicina in questo sentire di madre ad una donna umana, terribilmente umana!
Al confronto appare insignificante e convenzionale la figura di Ecuba, che non sa e non può comprendere l’abisso nel quale vive il figlio Ettore, costretto a combattere dall’areté e dalla dignità da difendere che gli impone la civiltà della vergogna: se non combattesse si dovrebbe vergognare, e con lui tutti i Troiani e le Troiane dai lunghi pepli. Ecuba non può e non sa abbracciare il dolore funesto del figlio, ma il poeta Omero sì, certo, e con la lui la filosofia: Ettore ha sofferto tutto, e ha perduto tutto tranne se stesso….Né superuomo, né semidio, né simile agli dei, ma uomo, e principe tra gli uomini. Lui è il resistente, lui abbraccia l’unico valore che nei tempi bui di Bespaloff ha ragione di esistere.