Dopo la ventata rivoluzionaria illuministica che aveva immesso in qualche modo, pur se con notevoli ambiguità, nel riconoscimento dei diritti la donna nella vita cittadina (pensiamo alle tricoteuses parigine ma anche ai salotti di madame de Condorcet e madame Helvetius), i modelli di comportamento del secondo Ottocento circoscrivono la vita della donna nell’ambito della famiglia. Anche se con un ruolo determinante ma solo in questo spazio ristretto. Del resto il tema della famiglia con annessi matrimoni e tradimenti è il tema centrale della letteratura dell’epoca, da Maupassant che in una novella racconta grottescamente un viaggio di nozze riepilogo della novella Enragèe, a Tolstoj, ai matrimoni economicamente progettati ne I Malavoglia. Anzi, secondo qualche critico come Ceserani, la famiglia è uno sfondo quasi permanente, spesso ossessivo. Con riflessi notevoli, ovviamente, sulla letteratura femminile.
Alle limitazioni per un’affermazione sociale esterna della donna attraverso il movimento delle suffragettes e quindi della scrittrice, contribuiscono fattori economici ma soprattutto gli ostacoli posti e anche la sensazione di anarchia che questo provoca negli uomini con la paura di perdere il potere. Tutto questo emerge in maniera sorprendente nella riaffermazione da parte della scienza positivistica dell’inferiorità naturale della donna. Su un versante opposto ma concomitante opera come freno anche la valorizzazione del modello cattolico di una donna portatrice di spiritualità, oltre alla tradizione romantica della donna fragile ed eterea.
E’ anche per questo che la rappresentazione della donna oscilla tra la visione angelicata (in qualche modo la seconda Lucia manzoniana) e il demonio ( le donne fatali di fine Ottocento dalla popolana lupa alle prostitute di Zola alle donne vampiro di Strindberg). Anche quando la letteratura sembra affrontare con spirito più libero la tematica femminile, l’esito stesso delle storie nasconde la volontà di mantenere gli equilibri. Lo si vede in Madame Bovary e in Anna Karenina, dove il disagio della donna è spostato tutto sul piano del rapporto con l’uomo amato. Forse soltanto nella Nora ibnesiana di Casa di bambola si comincia a intravedere la ricerca di un’autonomia personale delle donne. Del resto, l’emarginazione culturale della donna ha un ampio orizzonte in Europa, dalla Francia progressista ai luterani paesi scandinavi fino alla patriarcale Sicilia verghiana. Determinante in questa marginalizzazione saranno, però, anche le difficoltà soggettive che la donna incontra nell’opera di scrittura.
Non possiamo fare a meno a questo punto di soffermarci un attimo sulle caratteristiche di genere quasi permanenti della voce femminile. Nella scrittura femminile, quasi tutti i critici concordano, ricorre attraverso i tempi una serie di forme letterarie più immediate culturalmente nelle quali la tradizione letteraria non è fortemente vincolante e nelle quali, soprattutto, emerge un continuo rimando alle condizioni esistenziali tipiche della donna: la casa, la famiglia, la solitudine, l’esperienza emotiva. Fino alla metà del’700 possiamo dire che le donne scrivono prevalentemente per se stesse, per un pubblico del tutto intimo e privato, ma anche quando nella seconda metà dell’ 800 si misurano con il mercato editoriale, spesso continuano a praticare la soggettività privata attraverso l’autobiografia, lettere e diari. Tuttavia, anche quando affrontano generi più esterni come la narrativa d’ambiente, il giornalismo, l’inchiesta, portano il punto di vista femminile determinato sia positivamente da una sensibilità di genere che negativamente dai condizionamenti di una situazione di esclusione o, quanto meno, di emarginazione sociale. Partendo da questo limite almeno spaziale, non possiamo fare a meno di registrare come l’educazione ottocentesca riservata alle bambine con la sua approssimazione qualitativa e la brevità temporale (la scuola per loro va quasi sempre fino ai dodici,tredici anni) abbia costituito un handicap serio anche per quelle che poi si affermeranno come scrittrici da Sibilla Aleramo a Grazia Deledda, da Neera ad Ada Negri, per dire solo qualche nome. E’stato anche per superare questo ostacolo che quasi tutte le scrittrici si sono dedicate a un acculturamento del tutto autonomo e, inevitabilmente, disordinato, attraverso letture personali ed è anche per questo che i loro temi di indagine e rappresentazione sono stati per lo più quelli dell’esperienza esistenziale nei generi più vicini al vivere come romanzi, novelle e liriche. E tuttavia non possiamo trascurare neppure il fatto che l’appartenenza a una sensibilità di genere abbia loro fornito i mezzi per una rappresentazione meno stereotipata di quella angelo-demonio delineata dagli uomini, nella capacità di cogliere la realtà del vivere paradossalmente più viva nelle scrittrici donne nonostante la confusione tra gli abbandoni al fantastico, l’analisi del reale e la carenza del filtro intellettuale e culturale
Esaminando le dimensioni e i caratteri della scrittura sulle donne e delle donne nell’Italia postunitaria, appaiono evidenti alcuni nodi problematici soprattutto se teniamo conto degli squilibri territoriali che in Italia si creano per le opportunità editoriali, con le conseguenti differenziazioni di indirizzi.
Nella strutturazione territoriale dell’editoria si registra una specie di spaccatura o, meglio, di struttura binaria con l’editoria per letteratura diciamo alta, consacrata dal Carducci, concentrata in Toscana e a Roma con un indirizzo prevalentemente pedagogico a Firenze e con predilezioni estetizzanti quasi divistiche a Roma, dove il pubblico è più eterogeneo. L’altro percorso è quello della letteratura di consumo riservata non tanto a un pubblico specialistico quanto al cittadino medio borghese a Milano, rappresentata soprattutto dai piani editoriali della Sonzogno nata già nel 1818 accanto alla Hoepli, che si dedica ai manuali divulgativi, e della Treves. E’interessante notare come questa editoria si rivolga con particolare predilezione a un pubblico femminile con tonalità ideologiche nettamente borghesi, data anche la relativa ristrettezza del pubblico, se pensiamo che solo a inizio del ‘900 Il Corriere della sera raggiunge le 75.000 copie. D’altronde gli stessi ambienti di discussione letteraria sono nettamente borghesi, non più i salotti aristocratici del primo Ottocento ma i caffè. A Napoli la ricchezza della vita popolare e la vivacità dell’editoria giornalistica animata dalla coppia Scarfoglio-Serao spinge notevolmente a interessi sociologici mentre Torino con la perdita della capitale si ripiega su una produzione di tipo tradi zionale umanistico
Sulla base di questa situazione strutturale, è naturale che il tipo dominante di produzione a Milano sia quello della narrativa: romanzi ma anche novelle, spesso a puntate fino alla letteratura tipica di appendice con tutte le caratteristiche di questa produzione letteraria. D’altra parte sono gli indirizzi culturali del secondo Ottocento e gli esempi delle altre esperienze europee a spingere verso questa tipologia letteraria: il Positivismo come pensiero rivolto all’indagine di fatti e situazioni concreti con uno spostamento dall’analisi dei sentimenti a quella dei comportamenti, il Naturalismo con il suo impegno sociologico e il Verismo con la dolente e austera scoperta della realtà cruda delle masse popolari. Come afferma il critico Spinazzola, la narrativa verista abbandona l’indagine filosofica dello spirito interiore e getta la sua luce soprattutto sui comportamenti dell’individuo nel rapporto con gli altri uomini e con la relativa necessità dello studio di ambiente. In questo compito abbandona anche gli intenti politici e ideologici dello scrittore risorgimentale e perfino l’interesse all’allargamento del pubblico intrapreso dai romantici lombardi. Questo intento viene lasciato alla stampa periodica e alla letteratura di consumo.
Si spiega anche in questo rapporto privilegiato tra scrittore e pubblico la fortuna crescente del romanzo di appendice nel quale si impongono alcune scrittrici come Carolina Invernizio e che, secondo Angela Bianchini, assume sempre più una caratteristica ambientale immediata, regionale. Le caratteristiche del romanzo a puntate in un certo senso si adattano molto bene, sia come proiezione nei personaggi rappresentati sia nella sensibilità del narratore, alla sensibilità e alla condizione femminile: la sua visione consolatoria per la quale tutto nel corso delle varie puntate “si accomoda” si accorda molto bene con il paternalismo della cultura media e della considerazione verso la donna. Secondo Giulio Ferroni, questo tipo di letteratura trova il pubblico più disponibile in quello femminile e il perché non è difficile comprenderlo, se si dà uno sguardo alla reale condizione femminile sia nella struttura socio-economica che nell’immaginario collettivo
E’ proprio nella seconda metà dell’Ottocento che la donna comincia a essere inserita nel mondo del lavoro esterno all’ambito famigliare e di pari passo si diffonde la consapevolezza della questione femminile, a partire dalle aree più industrializzate, in termini di parità di salario e parità di diritti civili. In Italia, soprattutto nella società industriale, le donne si trovano a svolgere un doppio lavoro con una discriminazione notevole in termini di carriera, tanto è vero che con lo sviluppo della siderurgia e delle macchine vengono spesso estromesse perché ritenute troppo deboli per governare le macchine. D’altronde, anche nel lavoro extradomestico vige il sistema patriarcale. Lo dimostrano le norme del codice civile e la subalternità al capofamiglia al punto tale che nella prima industrializzazione, quando una donna viene assunta, spesso lo è nella fabbriche dove lavora già il marito il quale è responsabile del suo comportamento sul posto di lavoro. Perfino nella sviluppata America la legge Blockstore nel 1853 stabiliva che Il marito e la moglie sono una sola persona.Questa persona è il marito. E poiché la famiglia è non soltanto luogo di relazioni di vita e di comunione economica ma anche di regolazione di strategie matrimoniali, si può vedere come in essa si attui in modo prevalente la prima accumulazione capitalistica. Alleanze matrimoniali e fidanzamenti costituiscono spesso la rete di allargamento delle fortune economiche di un casato.
Anche il modello cattolico di donna, secondo Michela de Giorgio, svolge una specie di funzione paradossale: da una parte esalta nella donna la spiritualità e la dolcezza, facendola depositaria dei valori più alti, dall’altra costringe la donna reale con i suoi problemi e le sue aspirazioni in una specie di stereotipo di angelica perfezione. Questo modello del femminile etereo e delicato sarà ripreso, e in un certo senso paganizzato, dalla cultura decadente nella figura della donna fiore, della donna sirena con una sensualità avvolgente e dolce quale si manifesta nei quadri di Klimt.
Nella letteratura d’autrice del secondo Ottocento emergono capacità di costruire un realismo diverso da quello genericamente e intellettualisticamente sociologico che è quello di un radicamento esistenziale, di una letteratura incardinata in una condizione, nella quale i sentimenti si dipanano all’interno di spaccati di vita di una quotidiana normalità come, ad esempio, nei romanzi di Maria Antonietta Torriani (Un matrimonio in provincia) e di Neera (Teresa). Questi scritti paiono quasi anticipare quella letteratura volutamente scarna e minimalista che sarà ad esempio quella subliminale di Cassola. E comunque la normalità della vita femminile si sviluppa non con genericità ma attorno a personaggi ben costruiti con toni piani e con attenzione ai moti del cuore. Per queste doti di genere può essere significativo ricordare la lucida individuazione condotta con differenti percorsi ideologici da due donne di cultura di diverso ambiente: Madame de Stael che agli inizi dell’800 rileva l’utilità e, quasi, la necessità sociale dell’istruzione per la donna e, soprattutto, Lou Salomè, la celebre e spregiudicata musa ispiratrice di intellettuali come Nietzsche e Freud, che mette orgogliosamente in luce alla fine dell’800 la specifica sensibilità femminile, la peculiarità della donna nel suo essere più legata alla natura e al corpo e nella sua capacità di seguire quasi musicalmente il ritmo del vivere in una realizzazione piena della personalità. Certamente può colpire la sproporzione tra le sue dichiarazioni di rivendicazione del femminile e la sua stessa esperienza spregiudicata maschilisticamente, ma è innegabile che le sue parole mettono in luce caratteri determinanti per la scrittura femminile. E’ quel ritmo quotidiano della vita che ritroviamo ad esempio nel romanzo In risaia di Marchesa Colombi, dove la storia amara della giovane Nanna, che lavora per comprarsi quegli spilloni da capelli che non potrà indossare per la caduta dei capelli stessi, si dipana nella comunione della vita quotidiana di natura e uomini nell’atmosfera soffocante della risaia.
Ora è evidente che non sono solo queste doti di genere a delineare il panorama della scrittura femminile ma anche tutte le ragioni, le spinte, le limitazioni contestuali da quelle sociali a quelle culturali e organizzative alle quali abbiamo accennato, che incanalano la voce delle donne nella seconda metà dell’Ottocento, prevalentemente in Italia. Possiamo notare come gran parte delle scrittrici italiane di questo periodo sono accomunate da almeno due caratteristiche: l’impegno, in alcuni casi drammaticamente vissuto in altri serenamente e combattivamente attuato, per superare l’emarginazione femminile e la canalizzazione prevalente della loro voce sulla stampa periodica, riviste e giornali più disponibili ad accogliere i loro scritti offrendo una opportunità ma in qualche modo anche relegando in una sfera di minore dignità letteraria i loro lavori, in una specie di riserva di letteratura di consumo. Tuttavia possiamo cercare di raggrupparle anche secondo le prevalenti funzioni alle quali esse destinarono ciò che scrivevano.
Troviamo fra le educatrici soprattutto Annamaria Mozzoni, ben inserita nell’attività sociale, Luigia Codemo e Aurelia Folliero Cimini e anche Maria Antonietta Torriani che divenne nota con lo pseudonimo di Marchesa Colombi e della quale sono noti alcuni bei romanzi. Fra le donne che scrissero soprattutto sui giornali possiamo ricordare Paola Bianchetti Drigo, Anna Franchi, Clelia Romano Pellicani e la moglie di Capuana Adelaide Bernardini Capuana oltre alla Contessa Lara che sembra quasi anticipare con la sua vita spregiudicata un fenomeno di divismo
Invece possiamo definire più propriamente letterata Anna Zuccari Radius nota con lo pseudonimo di Neera. Narratrici in qualche modo più pure sono Caterina Percoto, Carolina Invernizio, Carola Prosperi, Rina Faccio nota come Sibilla Aleramo. Prima di istituire un breve confronto, anche per una scelta di evidenziazione di contrasto con alcune personalità straniere dell’epoca, vorrei comunque ricordare, soprattutto per la drammaticità esistenziale con la quale testimoniano le difficoltà della donna scrittrice, due personalità di donne meridionali: Enrichetta Caracciolo Fiorino e Mariannina Coffa. Interessante è anche un accenno ad almeno due romanzi di autrici dell’epoca che la Zambon definisce due dei più bei romanzi del secondo Ottocento italiano: Un matrimonio in provincia della Marchesa Colombi e Teresa di Neera incentrati sulla vita difficile di due donne sacrificate, Denza che attende per dieci anni una richiesta di matrimonio delusa dall’ottuso egoismo e opportunismo maschile, e Teresa sacrificata dall’egoismo di un padre padrone. Accanto alla loro lucida analisi introspettiva del quotidiano reale femminile non possiamo non ricordare la sensibilità sociale di Beatrice Speraz che tratta nel romanzo La fabbrica il tema fortemente sociologico del lavoro di fabbrica. Interessante è anche la considerazione dei caratteri di una scrittrice di forte successo di lettori come Carolina Invernizio che nei suoi più di cento romanzi rappresenta i caratteri tipici della letteratura d’appendice all’interno di temi macabri e mutuati dalla cronaca giudiziaria accompagnando il gusto morboso con il populismo verso le figure dei poveri. In questo modo presentava una struttura consolatoria che veniva incontro alle frustrazioni sociali dei poveri mentre le tipiche strutture narrative finalizzate alla suspense e all’identificazione emotiva, pur nella loro povertà culturale, di linguaggio banale e povero, sono documento dei bisogni repressi di larghi strati della società italiana del secondo Ottocento
Per quanto riguarda il confronto con le scrittrici straniere, prendendo in considerazione solo alcune figure possiamo notare la considerevole distanza culturale che separa da esse le scrittrici italiane dell’epoca, fortemente limitate dai condizionamenti culturali. Basti pensare alla sicura e profondamente e originalmente assimilata cultura classica di Virginia Wooolf, alla frequentazione paritaria che Gertrude Stein ebbe con artisti innovativi come Picasso, alla capacità di discutere di alta cultura antropologica di Jane Ellen Harrison per renderci conto di come questa voce delle scrittrici italiane assomigli a volte a un faticoso e debole grido nel deserto di una società ancora culturalmente attardata su notevoli pregiudizi.
Nell’immagine, Caterina Percoto. Illustrazione di Ernesto Mancastroppa, incisore (Milano, 1857 – Milano, 1909)