In un discorso all’Assemblea costituente italiana del 29 luglio 1947, Luigi Einaudi criticò la Società delle Nazioni come “una lega di stati indipendenti che mantenevano i loro eserciti, regimi doganali autonomi e rappresentanti diplomatici nazionali”. La proposta di Einaudi si può riassumere tutta in un’espressione: gli Stati Uniti d’Europa. A tal proposito, egli affermava che un simile progetto si sarebbe potuto realizzare impugnando o la “spada di Dio o quella di Satana”. Nel recente passato Satana, egli afferma, si chiamò Hitler, l’Attila moderno, tuttavia il suo progetto di unificazione mediante la forza bruta fallì miseramente, lasciando dietro di sé una sterminata scia di orrore.
Se l’aver impugnato nel passato la “spada di Satana” ha prodotto i disastri che conosciamo, non ci resta, afferma Einaudi, che impugnare la “spada di Dio”: «Invece della idea di dominazione colla forza bruta, l’idea eterna della volontaria cooperazione per il bene comune».
La prima cosa che mi salta in mente leggendo l’intervento di Einaudi è che stiamo vivendo in uno scenario proiettato indietro di circa un secolo. Al termine della seconda guerra mondiale gli stati usciti vincitori dal conflitto avevano disegnato un’Europa divisa per sfere di influenza; era la politica dei “blocchi”, una strategia di guerra a bassa intensità che ha attraversato tutta la seconda metà del XX secolo, superata solo nella breve fase di transizione tra l’‘89 e il ‘91, benché preparata nei lunghi decenni che hanno preceduto quella rivoluzione pacifica, grazie alla resistenza politica e culturale messa in atto dalla dissidenza anticomunista.
Da quella transizione è scaturito un mondo falsamente unipolare, il sistema delle relazioni internazionali sembrava dominato da una sola cultura: quella liberale e democratica, da un solo interesse: quello della business community globale, e da un solo valore: la libertà individuale. Sembrava che gli USA, la loro cultura, i loro interessi e i loro valori, dovessero dominare su un mondo che aveva definitivamente e fortunatamente sconfitto l’impero del male, arrestando per sempre la sua logica tribale e guerrafondaia.
L’allucinazione è stata fugace, nel giro pochi anni, una breve decade, sono riemersi i fantasmi del passato, quelli che hanno funestato l’Europa dall’inizio della sua travagliata storia moderna, misti ai nuovi mostri apparsi dalle viscere del fondamentalismo islamico. Una nuova miscela del terrore che ha stretto, come in una tenaglia, la cultura liberale e democratica europea, infondendo il sano dubbio che la democrazia liberale non sia un destino inevitabile, né un esito irreversibile della storia, quanto piuttosto un processo che non avrà mai fine, la cui ragione ultima risiede nella quotidiana battaglia contro i suoi tanti e variegati nemici: interni ed esterni.
Di fatto, in poco più di dieci anni, altri attori politici nazionali sono apparsi sulla scena geopolitica: oltre agli USA e all’Unione Europea, la Federazione russa ha rialzato la testa, con le mai sopite velleità imperialistiche, e la Cina si è imposta come potenza politica ed economica, entrambe a dispetto di qualsiasi riguardo per i diritti umani; tutti interlocutori legittimati in nome di una cultura politica liberale e democratica presuntuosamente disarmata e palesemente incapace di respingere le insidie provenienti da questi nuovi attori. È probabile che in queste ultime decadi di illusoria vittoria culturale, ciascuna delle cosiddette democrazie liberali abbia dato il peggio di sé, in termini di corruzione politica, di disuguaglianze, di esclusione sociale, e che la vittoria si sia trasformata nel peggiore dei boomerang – l’effetto “rispecchiamento” di cui scrivono Ivan Krastev e Stephen Holmes –, alimentando un risentimento antidemocratico e antiliberale che ha portato una parte della popolazione occidentale, rappresentata da una classe poliitca irresponsabile, a simpatizzare con il nemico.
Dunque, come è potuto accadere che nel 2022 siamo ripiombati ad un livello così involuto delle relazioni internazionali? Forse perché gli attori liberali e democratici dell’attuale multipolarismo, o almeno una buona parte di essi, purtroppo, non hanno fatto realmente i conti con le cause dei totalitarismi del Novecento e delle guerre che ne sono seguite, come invitava a fare Einaudi nel suo intervento. Ecco allora che, mentre l’Unione Europea ha appena e insufficientemente iniziato un processo di cessione di quote di sovranità nazionale, senza dismettere del tutto quella “spada di Satana” denunciata da Einaudi – di qui l’odine sparso con il quale anche questa volta si è mossa la diplomazia europea –, altri soggetti, che confinano con l’Europa e che oggi ci hanno dichiarato guerra, non hanno neppure immaginato di iniziare un simile processo e rivendicano con fierezza la qualità egemonica della loro politica internazionale, non trovando sulla propria strada di riconquista alcun serio ostacolo politico, culturale ed economico.
È evidente che a confrontarsi sono due culture politiche inconciliabili: una ispirata, ma distante dall’essere implementata, alla stateless society, in nome di un globalismo poliarchico, irriducibile ad alcuna autorità politica sovrana, ed una statolatrica, il cui dogma della sovranità nazionale impone di perseguire un progetto egemonico che teoricamente non può conoscere confini. Due culture che, quando vengono a contatto, non possono che escludersi a vicenda, perché l’una minaccia l’altra, e la presenza dell’Ucraina al di fuori dell’Unione Europea, ancor prima che dalla NATO, garantisce la Federazione russa dal rischio del contagio liberale e democratico; è una questione di sopravvivenza reciproca.
Venendo all’azione di guerra avviata da Putin, è evidente che essa appare del tutto irragionevole se adottiamo la logica liberale e democratica; ma per capire i fenomeni bisogna comprendere le “ragioni” dell’avversario. Il fatto è che la Russia è tutto tranne che una democrazia liberale, è un’autocrazia il cui potere è stabilizzato dall’alleanza tra la classe politica dominante (l’unica che riesce materialmente a sopravvive) e la comunità degli oligarchi, arricchitisi proprio in forza di tale alleanza; in breve, un gigante politico, ma un nano economico, una potenza politica e militare straordinaria, in un tessuto economico produttivo estremamente povero: il classico gigante dai piedi d’argilla; la sua forza economica è tutta nel gas e nel petrolio che esporta ai paesi ai quali ha dichiarato guerra.
Putin è al potere da circa venti anni grazie alla compiacenza e alla violenza degli oligarchi del gas, ai quali ha consentito di accumulare enormi quote di ricchezza nazionale, sottratta al popolo russo. Gli oligarchi, in cambio hanno ripulito la Russia dagli oppositori di Putin: giornalisti, intellettuali, politici. La forza di Putin potrebbe trasformarsi nel suo punto debole solo qualora la guerra non dovesse andare esattamente nel verso prospettato dall’autocrate russo, ma un simile eventuale scenario, tutt’altro che scontato, anche qualora dovesse realizzarsi, non potrà che riguardare il futuro. Nel presente assistiamo inermi e depressi all’occupazione di un paese libero, la cui unica colpa è di trovarsi tra due civiltà inconciliabili, dove una ha ripudiato la guerra, iniziando a mettere in discussione la nozione di sovranità nazionale, mentre l’altra l’ha innalzata a “spada di Satana” per ridisegnare l’ordine politico internazionale, riportando le lancette dell’orologio esattamente un secolo indietro.