Nel dibattito che ha preceduto l’elezione del capo dello Stato è stata avanzata l’ipotesi di un presidente donna, ma subito si è sviluppata una disputa: contro la richiesta generica di una donna, una figura qualunque “purché sia donna”, sono insorte le voci di coloro che, pur guardando a una figura femminile, richiedevano un nome prestigioso, di una donna che fosse competente e al di sopra delle parti. Sembra che ancora una volta la figura femminile venga vista come qualcosa di problematico, da esaminare e valutare, magari da difendere. Ora, ai candidati maschi la competenza non viene richiesta, come se naturaliter gli uomini avessero le capacità richieste per ogni incarico. Non a caso quasi tutte le discussioni dei politici su questo tema sono state condotte da uomini.
Intanto il fatto stesso di parlare della donna è una astrazione: non esiste La Donna, ma esistono le donne, esseri concreti e presenti a vari livelli in tutti i settori della vita civile. Pensiamo alle “quote rosa”, in fondo non sono altro che espressione di una concessione paternalistica a questa “specie da proteggere” politicamente, mentre nella realtà di tutti i giorni le donne sono ancora discriminate e spesso fatte oggetto di pregiudizi, quando non di soprusi e violenze. La stessa festa della donna per molti uomini rappresenta un modo (anche carino!) di mettersi in pace con la propria coscienza, pur rimanendo fermi nei soliti stereotipi.
Gli stereotipi e il linguaggio fondato al maschile sono indice di una dimensione simbolica e strutturale che sta alla base dello squilibrio di potere tra uomini e donne e affonda le sue radici nella notte dei tempi.
Senza parlare delle donne greche, segregate nel gineceo e destinate solo al compito riproduttivo, si può accennare al ruolo subordinato che esse avevano nella società romana, che lasciava loro un minimo di libertà, ma sempre sotto la tutela di un maschio nell’ambito di una famiglia allargata.
Anche nelle società orientali le donne erano completamente subordinate agli uomini, tranne qualche figura eccezionale, all’apice della scala sociale. Nella società ebraica, come si può evincere anche dalla Bibbia, le donne non godevano di autonomia, anzi dovevano assoggettarsi anche alla poligamia del marito. La narrazione del Genesi, dove Eva, tentata dal demonio, tenta a sue volta Adamo, ha creato e perpetuato non solo il pregiudizio di un essere inferiore (creata dopo Adamo), ma soprattutto la condanna delle donne, maliarde e fonte di corruzione per gli uomini..
Con il cristianesimo le cose sembrano cambiare, infatti nei Vangeli troviamo donne che vengono accettate al seguito del Maestro assieme ai discepoli, e alcune figure femminili che godono della considerazione di Gesù, e persino l’adultera non viene condannata secondo le antiche regole. Tuttavia già nei primi secoli del cristianesimo i pregiudizi sulle donne ritornano con forza, segnando la loro vita per secoli, soprattutto per opera dei Padri e dei Teologi, a cominciare da S. Paolo.
La letteratura patristica è ricca di giudizi negativi e condanne, di cui riporto pochi esempi: “La donna è la porta di Satana, la via dell’ingiustizia, la pinza dello scorpione” (S: Gerolamo); “ le donne sono demoni graziosi che fanno entrare gli uomini nell’inferno per le porte del paradiso … la donna è lo zucchero avvelenato con cui il diavolo s’impadronisce delle nostre anime”(S. Cipriano); “quando vedete una donna, pensate di avere davanti a voi non già un essere umano e neppure una bestia feroce, ma il diavolo in persona” (S. Giovanni Crisostomo).
Nel medioevo i pregiudizi della mentalità laica e popolare vengono condivisi da intellettuali e teologi: “ E’ meglio avvicinarsi a un fuoco ardente piuttosto che a una giovane donna; a causa della donna molti uomini sono morti, perchè come da un abito viene la tigna, allo stesso modo dalla donna deriva l’infelicità dell’uomo” (Jacques de Vitry). E Giovanni Pediasimo (sec. XIII-XIV) scrive :”una donna malvagia è il naufragio dei mariti; un malanno inguaribile che ti vive insieme; quotidiana punizione per il consorte; vecchiaia prematura per il misero compagno; un male da amare, un cruccio sempre accanto; … sperpero dei beni, scorpione in seno; feroce leonessa che ti avvinghia; chimera invincibile che spira fuoco; idra a mille teste, mostro cui non scampi; ..ma chi potrà mai evitare una donna del genere?”
Naturalmente l’immagine della donna condiziona la struttura della famiglia, che per secoli è stata concepita come una rigida monarchia paterna, entro la quale alla moglie e ai figli non venivano riconosciuti diritti. Molto diffusi nel popolo i matrimoni non regolati da leggi mentre nelle classi elevate si contraevano matrimoni, anche tra consanguinei, basati sull’interesse politico o economico; a volte bastava una semplice formula pronunciata dagli sposi perché il matrimonio fosse considerato valido.
Tra i secoli XV e XVI si cominciò ad affermare una legislazione per regolare i matrimoni, ma in tal modo si venne anche a codificare il potere maschile all’interno della famiglia. Le donne subirono un notevole impoverimento giuridico, rispetto alla stessa età feudale: non potevano sostituire il marito nell’assolvimento dei doveri di vassallaggio; gli atti civili, come contratti e testimonianze, non avevano valore se non convalidati dal marito. I documenti testimoniano che sia in Francia sia il Inghilterra, come nel resto d’Europa, il capofamiglia era come un monarca assoluto.
Questa situazione non è cambiata nei secoli più recenti; pensiamo al Code Napoleon, alla legislazione italiana post unitaria, al Codice Rocco. Etc.
Le lotte femministe dei secoli XIX e XX hanno portato al riconoscimento dei diritti formali delle donne (il voto, la capacità giuridica ed economica, la parità del lavoro, l’autonomia personale, etc.), ma nella realtà i pregiudizi (e i soprusi) permangono ancora come dimostrano numerose ricerche non solo in ambito europeo, e la situazione delle donne è spesso molto difficile, specialmente in alcuni contesti geografici.