Oggi è di scena un artista che ha avuto da vivere solo ventinove anni, consapevole del male che affliggeva i suoi polmoni e che ben presto gli avrebbe negato il respiro. Grande amico di Mario Mafai e da lui fortemente stimato, Gino Bonichi, che operò sotto lo pseudonimo di “Scipione”, nacque a Macerata nel 1904 e morì nel 1933.
Ne vedremo alcune opere per cercare di captare quale ansia di vita gli fece bruciare tante tappe per cercare di fare in tempo a sperimentare, toccare, esprimere, consumare mentre egli stesso si consumava.
Scipione, dunque, si formò con rapidità straordinaria in un momento culturale assai complesso che in arte già vedeva al culmine futurismo, cubismo e tutto quello che si era manifestato come “novecentismo”. Tali movimenti avevano già dato luogo a nuove espressioni di cui arrivavano solo sottili suggestioni più che ulteriori spinte innovative. Il nostro cercava di assorbire tutto, galoppando su epoche e stili, per studiarli e prenderne il meglio, dai bassorilievi paleocristiani a Tiepolo a De Chirico a Picasso.
Più evidente sviluppo di tali esperienze si trova nel suo disegno, rapido nei contorni e di grande potenza espressiva con tratti virgolati e senza chiaroscuro atti a rendere un risultato mordente ed estroso quando non visionario ed allucinato. Dai disegni preleviamo due esemplari della Collezione Cardazzo di Venezia: “ Il cavallino”e “Ritratto di giovane donna”, dove ben appare come egli sfugga ad una precisa ricerca di un’altrettanto precisa espressione plastica per obbedire solo ad una improvvisa fantasia, accesa da uno stimolo esterno che viene afferrato e tradotto in una forma che si anima di quell’occasionalità per diventare ora epressione plastica estremamente e completamente sua..
Il “cavallino”, a ben vedere, non è che una fantomatica larva spinta al galoppo ed è facile notare quanto essa somigli alla vita dell’artista. Il paesaggio è stralunato, l’animale pare non toccare terra, forse è già uno spettro, ma è al centro dell’opera, la possiede tutta. Sul fondo un colpo di luce, una casa, forse una realtà che tra poco non ci sarà più.
Della seconda testimonianza,“Ritratto di giovane donna”, ciò che colpisce è la sensualità degli occhi, come se la divorante lusinga dei sensi dell’autore indugiasse e si compiacesse in quello sguardo chiedendogli di non svanire. Nello stesso tempo l’enigmatico volto ha qualcosa di triste e duro, quasi ad esprimere un’autocoscienza rimproverante nei confronti degli eccessi della sua vita così irrimediabilmente segnata. Come a dire che la potenza della natura umana, più che piegare innaturalmente verso una disperazione suicida o farsi schiacciare da pesanti sensi di colpa, cerca, annaspa, trema ma morde, morde fino all’ultimo.
Sulla traccia dei disegni di Scipione si può percorrere la sua vita e afferrare la sua cultura anche dal punto di vista letterario. Egli amava particolarmente i più moderni autori italiani e francesi ed anche a ciò sono dovuti gli accenti più immediati della sua passionalità così come le improvvise insorgenze di misticismo. Aspetti, entrambi,che lo rendevano particolarmente sensibile alle suggestioni di Roma, dove visse e operò.
La Roma barocca, papalina, decadente e totalizzante che fu uno dei temi prediletti soprattutto delle sue non numerose opere pittoriche tra le quali giova ricordare “Ponte S. Angelo”, “Piazza Navona” e il “Ritratto del cardinale Vannutelli” della Galleria d’Arte Moderna, sempre di Roma. In pittura lo troviamo artista ancora più macerato, quasi adescato dalla duttile mollezza del colore con le sue innumerevoli tonalità tracciate con vibranti e tortuosi colpi di un pennello furioso.
L’ultima volta che le sue opere apparvero in pubblico fu alla Quadriennale romana del 1931.
Nei successivi due anni che gli restavano da vivere Scipione preferì scrivere e non dipinse ne disegnò più.