Nel febbraio del 1922 usciva nelle librerie quello che il regista e critico francesco Mesolino ha definito “il libro fiume che nacque sul Tevere”.
Lo scrittore irlandese James Joyce (1881-1941) concepì l’idea di scrivere Ulisses fra il 1906 e il 1907, periodo che trascorse a Roma lavorando in banca e dove visse in un palazzo di via Frattina. Qualche studioso di recente aveva fatto notare che Joyce “fuggì dall’ultracattolica Irlanda e finì ai piedi del Vaticano”.
Nato a Dublino da famiglia benestante, dopo gli studi presso un collegio di gesuiti, si iscrisse all’University College di Dublino, conseguendo la laurea in lingue moderne. Spirito ribelle fin dall’adolescenza, si mostrò sempre insofferente verso il nazionalismo irlandese, manifestando anche una marcata ostilità verso la Chiesa cattolica che, a suo dire, aveva plagiato le menti degli Irlandesi.
Purtuttavia l’Irlanda è il luogo dove i suoi personaggi si muovono e vivono con le loro frustrazioni; di Dublino descrive il clima opprimente in Dubliners (1914), una memorabile raccolta di 15 racconti ambientati tutti nella sua città natale.
Nel 1904, dopo il matrimonio con la giovanissima Nora Barnacle, decide di lasciare l’Irlanda in esilio volontario prima a Roma e poi a Trieste, dove trova lavoro come insegnante presso la Berlitz School. Fra gli alunni di un corso, incontra Italo Svevo, con il quale stringe una duratura e profonda amicizia.
Trieste è la città dove, a detta di molti critici, “Joyce crebbe”, grazie alla spinta di Svevo e di Wiliam Butler Yeats e di Ezra Pound che lo aiutarono ad ottenere alcune sovvenzioni per poter continuare a lavorare sulla stesura di Ulisses; l’opera verrà completata a Zurigo, dove lo scrittore con la famiglia fuggì allo scoppio della prima guerra mondiale.
Ulixes è una moderna odissea intellettuale di Leopold Bloom dove scene, racconti, fatti si susseguono parallelamente all’opera omerica e dove i protagonisti parlano liberamente di religione, sesso, letteratura, donne, in un fluire di immagini fra ricordo e sogno.
Joyce fa uso del monologo interiore, una delle tecniche del “flusso di coscienza”(stream of consciousness) perchè sente l’esigenza di dire la verità sulla vita umana senza veli nè finzioni. Attraverso il monologo interiore infatti il lettore è coinvolto interamente nella verità della narrazione perchè legge nel pensiero dei personaggi, abita nel loro inconscio.
L’eroe joyciano non è l’eroe omerico, di statura sovrumana come sovrumane sono le situazioni che si trova ad afrrontare; non è neanche l’eroe shakespeariano, quasi pari alle forze contro le quali combatte per poi soccombere. L’eroe joyciano è di statura normale, calato in situazioni altrettanto normali, che si ripeteranno ogni giorno nella vita mediocre di uomo mediocre.
Nell’opera dello scrittore irlandese, accolta con entusiasmo da Eliot, Pound ed Hemingway, non è tanto da vedere l’inizio di una tradizione quanto la fine dell’epica e degli eroi. Le acrobazie verbali di Joyce, per quanto irritanti ed indicifrabili a volte possano apparire, hanno imitato la concezione tradizionale del romanzo, influenzando in modo determinante la narrativa mondiale moderna, al punto che alcuni critici arrivano a distinguere in essa due fasi: il prima e il dopo Joyce.