Sul ruolo del padre

Sul ruolo del padre

Col crescere di separazioni e divorzi s’indebolisce il ruolo paterno. C’è chi denuncia, in modo provocatorio, una società senza padri, analizzando le differenze tra figli cresciuti con una figura paterna sicura e significativa e figli che ne sono stati privati. Alla latitanza paterna vengono ricondotti la difficoltà e il ritardo nel diventare adulti, fragilità che affliggono non pochi adolescenti e producono comportamenti devianti (dai disturbi alimentari all’uso di droghe, dall’abbandono scolastico al bullismo).

Negli USA risulta che il 40% dei bambini cresce senza padre. Ricerche effettuate in Paesi a più alta instabilità coniugale concordano nel segnalare che un 25-30% di padri smette di pagare l’assegno mensile e di contattare i figli a pochi anni dalla separazione. La percentuale sale nel corso degli anni, fino a raggiungere un 70% di padri che non vede mai o quasi mai i propri figli, man mano che gli ex coniugi costruiscono un nuovo rapporto di coppia. I padri intervistati, per giustificare il distacco, si appellano ad una difficoltà culturale: si dicono privi di quell’attaccamento “naturale e istintivo” tipico delle madri. Si tratta degli stessi padri che nelle liti dei divorzi invocano maggiore sostegno alla paternità e mettono sotto accusa le lobby dei giudici che penalizzerebbero il ruolo dei padri nelle cause di famiglia.

 La richiesta di paternità è forse una nostalgia dell’autorità indiscussa del passato? In realtà, a fronte di chi giudica ‘deboli’ i padri che non si rivestono di autorità, non pochi psicologi osservano i benefici effetti della tenerezza sullo sviluppo della sfera cognitiva ed emozionale dei figli, sull’incremento della stima di sé, sul controllo degli impulsi e sulla padronanza dell’ambiente esterno, sia fisico che sociale. In alcune inchieste gli adolescenti rimproverano il papà di essere troppo assente e, quando presente, intento a lavoretti di riparazione e pratiche burocratiche. Tra l’altro, è sorprendente che reclamino la presenza del papà più della mamma, la quale forse è già in media più presente. 

Non mancano segnali positivi. Dal settembre del 2006, con i loro appelli contro la violenza sulle donne, gli uomini hanno rotto il fronte maschilista dell’autodifesa, per esempio nell’auto-critica del maschilismo e nell’impegno a costruire rapporti paritari tra i sessi. Denunciando il retroterra di minacce, ricatti, abusi, hanno costituito non pochi gruppi per una paternità amorevole  e responsabile. Inoltre, in appoggio alla lotta delle donne, riconoscono che la violenza non può essere liquidata come patologia di singoli o come sopravvivenza di culture ormai passate; essa pullula nella normalità degli stili di vita e nelle strutture mentali latenti che l’alimentano e la giustificano.

In Italia è nato l’ISP, Istituto di Studi sulla paternità, fondato e diretto da Maurizio Quilici dal 1988, che promuove nuovi modelli di paternità, per una evoluzione che va  da capo famiglia verso relazioni più solidali ed egualitarie con la moglie. Le nuove prospettive non possono essere viste solo come un effetto di rivendicazioni sessantottine delle femministe, in perenne lotta contro l’immagine del padre forte, sconfitto dalla storia. Esse rispecchiano piuttosto un percorso evolutivo orientato ad un migliore equilibrio tra i sessi, che per i credenti è più confacente al progetto di Dio sulla creazione.

Per essere buoni padri non serve apprendere “tecniche”. Ingmar Bergman fa dire ad un suo personaggio: «La verità è che all’Università non ci hanno insegnato ad amare». S’impara ad amare a partire dalla relazione di unità con la madre, che  presenta ai figli un modello di relazione positiva credibile, perché sperimentata in famiglia.