Marta Iannetti, Bellina che sei nata alla montagna. Donne agro-pastoralismo e migrazioni a Pietracamela, Centro Studi N. Iobbi, Teramo 2021
Presentare il libro di Marta è un onore che olterpassa la ferita che non vogliamo riaprire.
Leggendo il libro, con mia sorpresa, ho scoperto di essere stata da lei ringraziata, tra gli altri, per averla sollecitata a partecipare ad un concorso per “Borse di studio per tesi di dottorato e progetti di ricerca”. Ero allora presidente del “Premio donna” che si tiene ogni anno a Conversano. Il suo progetto, nucleo del libro che presentiamo, fu riconosciuto meritevole all’unanimità. Marta scrive: «il premio mi ha permesso di dedicarmi alla prima elaborazione di un saggio monografico che ha costituito il nucleo fondamentale per la scrittura del presente testo».
Confermo la motivazione della giuria di allora:
«La candidata Iannetti Marta mostra di avere esperienza di ricerca sul campo, relativamente alle donne dei Paesi dell’America Latina e in particolare del Messico. Presenta un progetto di ricerca incentrato sui processi di modernizzazione nelle regioni di montagna dell’Appennino abruzzese, in cui, a fronte del pregiudizio di arretratezza, si evince la capacità delle donne, quando necessario, di essere protagoniste nella gestione della sopravvivenza e di saper assumere il ruolo di capofamiglia e di titolari di micro-aziende, fungendo di fatto se non di diritto, da perno del sistema socio-economico della zona montana studiata.
Il progetto di taglio antropologico culturale si avvale di interviste a donne prevalentemente anziane, custodi di un patrimonio a cavallo tra antichità e modernizzazione e dunque maggiormente in grado di rappresentare l’impatto del mutamento sull’identità femminile e sulle famiglie. La ricerca si annuncia ben impostata, con una ricca e attendibile documentazione analizzata con rigore scientifico. Essa ci dà conto delle rivoluzioni strutturali e culturali, palesi e nascoste, che trasformano la vita concreta delle donne e degli uomini (ai quali pure si allarga la ricerca) nelle aree montane del centro-Sud».
Una prima impressione leggendo un libro che è venuto crescendo a partire da quella bozza di progetto, è che Marta è una buona penna. Scrive in modo chiaro, comprensibile per tutti e al contempo rigoroso, giacché ogni parola è pesata, ogni citazione è documentata e ogni frase rifinita, come non è facile trovare negli scritti delle nuove generazioni, più abituate alla velocità delle immagini dei mass media che inducono ad una fretta che ostacola i tempi lunghi della buona ricerca.
Marta era femminista? Si è no. Lo era per la sua innata passione a scavare nel vissuto femminile, a immedesimarsi in prima persona con le sofferenze, il coraggio, le conquiste delle donne, riconoscendone la dignità e la libertà come ad ogni persona. Si metteva dalla parte di queste donne, segnate dal controllo familiare, maritale, parentale (suocera) e di tutto il paese, donne invisibili alla storia con la S maiuscola, occultate nelle narrazioni filtrate da occhi maschili. Marta ne ha messo in luce il protagonismo nel vissuto concreto quotidiano, sebbene privo di riconoscimenti.
Non era però femminista se questo significa adesione ad una ideologia che assolutizza la prospettiva di genere e tende a guardare il mondo umano in chiave di contrapposizione dicotomica, di stampo vetero-marxista, tra donne oppresse e uomini oppressori, analizzati attraverso lenti che amplificano il sospetto generalizzato di maschilismo.
Le donne di montagna descritte da Marta sono al contempo le bestie da soma di Teofilo Patini e le guerriere di Anne Macdonnel (1908). Si capisce chiaramente che chi scrive s’immedesima e ama queste donne, ma non è nei suoi intenti «alcuna concessione alla nostalgia per i tempi andati» (p. 137), carichi di umiliazioni e del peso del potere che umiliava le donne in pubblico e nel privato.
Tuttavia, senza trascurare gli incontestabili elementi dell’oppressione, Marta preferisce evidenziare i tratti di laboriosità, responsabilità imposti dal carico di fatica e dai sacrifici che la montagna esige. Si pensi solo al trasporto dei materiali per la costruzione del rifugio Franchetti a 2433 metri. Per loro non c’erano osterie, vino e carte del dopolavoro, perché il loro tempo era interamente dedicato, scandito dalla cura della famiglia, della casa, dell’ambiente, del lavoro, rompendo lo schema pubblico privato, lavoro produttivo e improduttivo, ozio e lavoro. Chi non si ritrova in descrizioni di questo tipo: «Il sole a San Rocco si prendeva filando o rammentando, si cantava sì, ma caricando il fieno o mietendo, era bello cogliere fiori nei boschi per tingere la lana…la raccolta dell’acqua poteva diventare una passeggiata di corteggiamento per le ragazze, ma si stavano caricando dieci litri e oltre in testa nel misterioso equilibrio sul traniegl [torinello] più volte al giorno su e giù per le stradine ripide» (p.131).
Opportunamente Marta rimbalza la denuncia dei parametri ISTAT (censimento 1951) che classificano la maggior parte delle donne come “popolazione non attiva”, solo perché non risultano impiegate e salariate. Al contrario Marta snocciola la lista degli impegni delle donne di Pietracamela: «arano, seminano, mietono, governano e pascolano il bestiame, trasportano, vendono e comprano, panificano, caseificano, cucinano, cuciono, tessono, ricamano, tingono, riciclano, provvedono all’acqua, lavano tutto, si adoperano nel reperimento del legnatico, fanno figli e figlie che allevano curandone le anime e i corpi, assistono le persone non autosufficienti della famiglia…sono portatrici dei rituali, delle storie e dei canti che si occupano di tramandare» (p.128).
Il libro che gli amici hanno avuto l’amabilità di pubblicare valorizza il peso economico e morale che le donne hanno avuto – non solo nelle società montane – ed anche la capacità di decidere e assumere ruoli guida, supplendo gli uomini che si allontanavano da Pietracamela per lavorare in zone limitrofe, in altre regioni o in Canada.
Marta non s’impantana in quelle discussioni teoriche circa il rapporto teoria prassi, tipiche del mondo delle astrazioni che lasciano il tempo che trovano; è uno di quegli studiosi di antropologia che si confrontano con la vita reale e con personaggi che sono il “museo vivente delle culture orali”, per poi filtrare e discernere attraverso il silenzio pensoso della riflessione. Infatti cercava il contatto diretto con interlocutori viventi, botti di memorie e sapienza e che ai più appaiono privi di attrattiva e di cultura, da relegare ai musei dell’antichità. Basta vedere la foto riportata a p. 20 con Marta che dialoga con Luigina Panza per rendersene conto. Questi personaggi del popolo della sua Pietracamela che lei conosceva ad uno ad uno le diventavano in breve tempo familiari e maestri. Da essi traeva esperienze, racconti di vita, proverbi, tradizioni come fossero pietre preziose e vive di una città costruita sulla roccia.
Il lettore nel leggere capisce immediatamente che l’autrice ha messo cuore, gambe, tempo, fatica, tutte le sue risorse, libera – com’era nella realtà – dal perseguire carriera, successo, denaro. Confessa apertamente che il mondo della gente di montagna: «mi è storicamente vicino… vicinanza che fa sì che lo sguardo tenda a volte a smarrirsi incontrando elementi familiari, tratti ancestrali… Mondo vicino perché un po’ vengo dalla Terra… a Pietracamela c’è casa mia, lì sono stata portata a pochi giorni di vita, vi ho passato le estati… Addosso agli alberi e alla roccia ho conosciuto l’immensa presenza della memoria e scorrazzando tra i vicoli del paese ho goduto del senso di una domesticità che va oltre le pareti casa» (p. 33).
Il libro che oggi presentiamo è una conferma evidente che Marta amava la montagna. Lo posso attestare per esperienza diretta condivisa nei soggiorni delle nostre famiglie a Pietracamela, tra lo scoppiettio del fuoco del camino, le passeggiate tra le montagne e le letture colte, come nel caso delle Lettere a Giulia di Giuseppe Capograssi. Come scrivono F. Lanci, Emanuele Di Paolo e Gianfranco Spitilli: «Marta conosceva la montagna da quando era bambina. Lo si capiva dalla sicurezza con la quale si muoveva tra le case e la gente; eppure conservava la distanza rispettosa di chi continua a sentirsi ospite. Aveva il garbo nelle relazioni» (p. 11).
Aveva scelto con coraggio, originalità e gioia la strada della ricerca antropologica, seguendo le sue tendenze naturali, senza andare dietro ad attrattive di un lavoro più stabile remunerativo, ma che avrebbe richiesto di supplicare e fare la fila nella stanze dei potenti. Era spontaneamente fedele al mestiere che aveva scelto e che le imponeva di porsi e porre domande per poi disporsi ad ascoltare le risposte senza pretendere di trarre conclusioni e asserzioni apodittiche.
È un vero peccato che le istituzioni accademiche della nostra città e della nostra Italia, bloccate nei sistemi di cooptazione e nelle genealogie di professori che divengono ordinari per destino, non abbiano saputo valorizzare, come avrebbero dovuto, la competenza di questa concittadina, studiosa della cultura popolare, non solo del nostro territorio, che aveva tanto da dare soprattutto ai giovani, incoraggiandoli ad avere la tenacia necessaria per perseguire e approfondire le curiosità della mente.
Forse questo libro e ancor più la sua vita potrà portare buoni frutti, tra i quali un contributo effettivo al cambiamento di rotta di questa nobile e malridotta istituzione di alta cultura, sollecitando chi ne ha il dovere e il potere a individuare e promuovere i migliori giovani della società teramana, che oggi purtroppo emigrano e arricchiscono istituzioni di altri paesi.
Il libro che presentiamo è espressione di una passione che Marta ha voluto condividere, senza essere sicura se un domani, chissà, ci sarebbero stati lettori coinvolti come lei dal punto di vista intellettuale, affettivo, empatico fino a identificarsi con le persone intervistate e con le loro narrazioni. Le bastava aver fatto la sua parte, semplicemente perché poteva e perciò doveva farla. Le sue donne non sono un ‘oggetto di studio’, ma il patrimonio prezioso di una storia intrecciata con quella dell’autrice e del suo popolo, una storia a torto considerata ‘minore’, che lei voleva recuperare alla memoria collettiva e mettere sul piedistallo, perché fosse onorata e se ne passasse il testimone da una generazione all’altra.
Giulia Paola Di Nicola