Nella Divina Commedia Dante si propone di descrivere il suo viaggio immaginario nell’oltretomba per dimostrare come facilmente ci si perde, ma come si può riuscire a salvarsi, anche se ritrovare la “diritta via” è più difficile che perderla; infatti la dignità dell’uomo, ente che possiede un’anima razionale immortale e una destinazione ultraterrena, richiede che tale sforzo si compia. La strada è sicuramente lunga e difficoltosa, ma con il sostegno della Grazia è percorribile.
Il sistema di pene e castighi descritto nella Divina Commedia è costruito da Dante sulla base delle concezioni etiche del cristianesimo dei suoi tempi, di ispirazione tomista; ma la dottrina etica di Tommaso si riallaccia al pensiero morale di Aristotele, il suo concetto di virtù richiama quello dell’Etica Nicomachea. Per Aristotele il fine dell’agire è la felicità, che non va confusa con i piaceri sensibili: ciò che dà all’uomo la vera felicità è il bene, cioè l’esercizio della virtù.
L’uomo, in quanto ha la capacità di conoscere la differenza tra fine e mezzo, può rendersi conto di quali siano i mezzi conformi al fine della felicità; quelli che in genere vengono considerati fini: ricchezza, salute, piaceri, onori, sono solo mezzi per l’esercizio delle virtù, e queste sole rendono l’uomo felice. Le virtù, frutto di scelta razionale, sono date dalla ricerca del giusto mezzo; il criterio dell’azione morale è la misura, la medietà, è l’armonia dell’azione, la capacità di usare la ragione, di scegliere in base alla perfezione del fine; la virtù è ricerca del bene, non è metà bene e metà male, ma unicamente bene.
L’etica del giusto mezzo pone in primo piano l’elemento della scelta e della responsabilità. In ciò Tommaso si trova d’accordo con Aristotele, tuttavia rispetto a quest’ultimo introduce due nuovi aspetti di ispirazione cristiana, il libero arbitrio e l’intenzionalità. Il libero arbitrio consente una scelta basata sul giudizio espresso dalla ragione intorno alle cose e comporta il riferimento a un fine trascendente: l’azione dell’uomo non ha il fine in se stessa, ma istituisce un rapporto con un fine superiore, causa prima e fine ultimo di tutti gli esseri. L’intenzionalità dell’agire trasferisce la scelta nell’interiorità dell’anima. Così mentre Aristotele si muoveva entro un orizzonte prettamente esterno, etico nel senso dell’ethos (costume) legato alla comunità e alle sue consuetudini, Tommaso valorizza l’interiorità, che proietta il soggetto verso il fine ultimo e verso la sopravvivenza dell’anima oltre la morte.
Base dell’etica tomistica è la libertà intesa come libero arbitrio, capacità di scegliere tra bene e male. Secondo Tommaso la volontà è attratta dai beni del mondo, particolari e finiti, ma non è determinata nella sua scelta; l’intelletto è in grado di cogliere il valore intrinseco delle cose e discernere in esse la parte di bene e la parte di male che contengono, perciò la volontà che si trova di fronte a beni limitati può decidere in favore dell’uno o dell’altro, in base alla sua valutazione degli aspetti positivi o negativi. Per l’agire virtuoso il fine è il raggiungimento del proprio stato più perfetto: “Il fine di tutte le cose è la loro perfezione”; ma la perfezione di ogni cosa è il bene, dunque il fine equivale al bene; ma il bene supremo è Dio, dunque il fine di ogni cosa è Dio, perfezione suprema.
Per Tommaso tutto si spiega partendo da Dio, causa prima di tutti gli esseri: di fronte a Lui tutti gli altri esseri sono soggetti al tempo e al divenire; gli enti esistono, ma come creature di Dio. L’uomo possiede un’anima immortale che alberga in un corpo materiale, ma possiede la capacità di agire liberamente, non essendo condizionata completamente dalla materia, perciò l’uomo è libero, e sulla sua libertà si fonda la morale secondo Tommaso (e Dante ). La legge morale è insita nell’anima dell’uomo; perciò l’anima , che è superiore al corpo, subordina a sé i desideri del corpo; il male si ha quando tale ordine non è rispettato e la sensibilità sopravanza la ragione: bene e male si commisurano alla retta ragione e non al criterio del piacere e del dolore.
Dante condivide la concezione aristotelica della sostanza: l’essere è sostanza, tutto ciò che è, è sostanza, ma rispetto allo stagirita il Motore Immobile non è più un’entità impersonale, bensì il Dio creatore del cristianesimo. L’essere si dice in molti modi poiché la realtà è costituita da un insieme di enti armonicamente correlati e disposti secondo una dimensione gerarchica in cui vi è un massimo e un minimo; nella scala degli esseri il punto più alto è costituito da Dio, Motore Primo dell’universo: tutto trae esistenza da Lui, Causa prima; tutto tende a Lui, fine ultimo. Le cose ricevono la vita da Dio e acquistano significato rispetto a Dio, come loro fine.
Dio, somma perfezione è la luce che vivifica l’intero universo, per questo nella terza Cantica la struttura dell’universo teorizzata da Aristotele si trasfigura in un regno della luce. La luce risplendente nei cieli è manifestazione della verità; Dio, Verità suprema, illumina con la sua luce ogni cosa, facendo risaltare il caleidoscopio di colori percepito dal poeta nel Paradiso, e si espande poi in tutto l’universo, diffondendovi virtù e bellezza, che si rispecchiano negli esseri secondo la potenza di ciascuno. La luce divina risplende in tutto l’universo in misura diversa nei diversi luoghi, a seconda della vicinanza a Dio, cioè in base alla perfezione che ogni realtà possiede in ragione della vicinanza a Dio. Dio, luce ineffabile, è il fine ultimo a cui tutto l’universo tende. Quanto più ci si avvicina a Lui tanto più si viene attratti dal desiderio di avvicinarLo e conoscerLo.
L’immagine è un ritratto allegorico di Dante Alighieri del Bronzino, 1532/1533