Aggiungere qualcosa a quanto è stato detto da critici e studiosi di fama in questo anno di celebrazioni dantesche non è cosa facile, tuttavia proprio perché “un classico è un libro che non ha mai finito di dire quel che ha da dire” (Calvino, Perché leggere i classici?), mi permetterò una rapida riflessione su una parola che occupa uno spazio importante nella Commedia, una parola a cui oggi dovremmo dedicare anche noi maggiore attenzione, evitando di ridurla ad inutile slogan, perché quando delle parole si fa un cattivo uso “o se ne manipolano deliberatamente i significati, l’effetto è il logoramento e la perdita di senso” (G. Carofiglio, “La manomissione delle parole”).
La Commedia, più delle altre opere di Dante, parla una lingua antica, che per essere pienamente compresa va contestualizzata nella sua epoca, e al tempo stesso nuova, capace di suscitare emozioni vive, di favorire riflessioni sulla contemporaneità.
Tra le tante parole che continuamente vengono richiamate alla memoria dai versi danteschi, sceglierei “libertà”, forse proprio perché l’abuso e il cattivo uso rischiano oggi di impoverirne lo spessore e di tradirne il significato. Non ne sottolineerò la presenza attraverso l’incidenza numerica, attraverso statistiche relative alle tre cantiche, e non saccheggerò l’opera per citare i tanti passi in cui essa compare, ma mi limiterò a poche terzine, le più note, per ribadire, se ce ne fosse mai bisogno, che l’intero viaggio oltremondano che Dante intraprende per la salvezza sua e dell’umanità tutta, è ricerca della più autentica libertà e meditazione sul suo profondo significato, declinato nelle sue più importanti accezioni: libertà di scegliere prima di tutto cosa fare della propria vita e, in prospettiva, quale destino ultraterreno assicurarsi.
Libertà dunque di operare il bene, ma anche di deviare dal percorso indicato dall’Artefice, perché come “forma non s’accorda/ molte fiate a l’intenzion de l’arte” ( Pd. I, vv.127-128) così anche l’uomo ha potere di deviare dalla retta via. Libertà di pentirsi, anche in extremis, quando sembra non esserci più alcuna speranza e invece l’infinita “bontà di Dio ha sì gran braccia,/ che prende ciò che si rivolge a lei” (Purg. III, vv.122-123) tanto da poter accogliere anche uno scomunicato, dai “peccati orribili” (Purg. III. V.121) come Manfredi, o un violento, morto a sua volta di morte violenta, come Bonconte da Montefeltro (Purg. V).
Ed è proprio l’amore per la libertà a fare di un suicida come Catone, l’emblema della coscienza che non scende a compromessi, non si piega e, prefigurando il martirio cristiano, non esita a rinunciare alla sua stessa vita (“libertà va cercando che è sì cara come sa chi per lei vita rifiuta” Purg. I, vv.71-72). Libertà di scegliere di lasciare “la compagnia malvagia e scempia” e “far parte per se stesso” (Pd. XVII, v.62), con l’orgoglio di essere nel giusto, fedele ai propri ideali e per questo solo, esule, magnanimo come gli spiriti magni del Limbo, con la consapevolezza che il libero arbitrio è ciò che rende l’uomo degno delle azioni più nobili: infatti “se ‘l mondo presente disvia,/ in voi è la cagione, in voi si scheggia;” dice Marco Lombardo (Purgatorio, XVI vv.82-83).
E nel Paradiso (XVII, vv.37-39) Cacciaguida precisa che “la contingenza, che fuor del quaderno/ de la vostra mente non si stende,/ tutta è dipinta nel cospetto etterno;/ necessità però quindi non prende/ se non come dal viso in che si specchia/ nave che per torrente giù discende”, immagine bellissima in cui la prescienza del futuro da parte di Dio non implica nessuna necessità, salvaguardando così la responsabilità delle scelte umane. Libertà infine di riferire ciò che Dante “ha visto”, sapendo bene che la sua “voce sarà molesta nel primo gusto”, ma lascerà poi “vital nodrimento quando sarà digesta” (Pd. XVII, vv.130-132), perché “farà come vento,/ che le più alte cime più percuote;/e ciò non fa d’onor poco argomento.” (Pd. XVII, vv,133-135).