“Il MUGNAIO” di Simonetta Sacripanti, Artemia Nova Editrice, Te 2021
“Sto così bene nel mio mulino! È proprio l’angolo che cercavo, un piccolo angolo profumato e caldo, distante mille leghe dai giornali, dalle carrozze, dalla nebbia!…Vedete, quei mulini erano la gioia e la ricchezza del nostro paese.”Alphonse Daudet,Lettere dal mio mulino,1870.
Proprio come diceva Daudet,il mulino del padre di Simonetta Sacripanti era la gioia e la ricchezza del paese di Villa Ripa,dove il lavoro era duro e faticoso ma la soddisfazione di produrre farina dal grano era la ricompensa nonché il collante dei legami interpersonali e dell’attaccamento alle radici e alle tradizioni.
Nel testo dal titolo “Il mugnaio”, pubblicato a maggio dell’anno in corso con Artemia Editrice, Simonetta Sacripanti si propone di condurci in “Un viaggio attraverso il sentiero del grano”con“un libro memoria di un mondo che non c’è più”, come afferma lei stessa nella quarta di copertina.La dedica ai genitori manifesta la volontà di farli rivivere attraverso i ricordi, risuscitando insieme ad essi le tradizioni, i riti, gli strumenti di lavoro e perfino la lingua privilegiata di comunicazione che era il dialetto.
Il ritmo della narrazione scandisce il ritmo dei lavori dell’orto e della campagna nel succedersi delle stagioni e con il coinvolgimento quotidiano di tutta la famiglia contadina:dissodare la terra e sanarla, seminare e difendere i germogli,sarchiare, falciare e mietere , legare i covoni e battere le spighe, trebbiare per separare dalla paglia e dalla pula i chicchi di grano, fino all’ultimo atto di portare il grano al mulino per ottenerne la farina. Ogni fase, descritta in italiano e accompagnata da racconti nel dialetto locale, è illustrata dall’artista Giovanni Tambara (tranne in due casi)con disegni in bianco e nero che ne sottolineano il legame con una società arcaica; è inoltre affiancata da citazioni di opere classiche che hanno probabilmente la funzione di evocare la sacralità di un’etica del lavoro dalla radice antica. Si riporta, ad esempio, un brano di Esiodo sull’Agricoltura, tratto da “Le opere e i giorni”, in cui la liricità della descrizione dell’alba si intreccia all’epos della fatica di un lavoro duro ma edificante: ”Quando le Pleiadi si levano in cielo,/ è l’ora di affilare le falci(…) Quando il sole dissecca la pelle,/è l’ora di mietere”. Accurata è la precisione lessicale nei dati tecnici degli strumenti e delle attività agricole, dettagliata è l’elencazione dei riti del cibo e degli svaghi nelle pause: lu sdejùne, lu rimbizze, la rembrenne, lu ferlengacce. E si dovevano bruciare davvero molti grassi con la fatica se la colazione mattutina, lu sdejùne, consisteva in”ove, pependùne, nu pezze de pecurìne, e, quande ce statàve,pure li sardelle e lu casce fritte”.
Alla descrizione del padre Luigi Sacripanti e del suo lavoro ereditato dal nonno nel 1938, l’autrice riserva non a caso la parte esattamente centrale dell’opera, in un capitolo dal titolo appunto “Il mugnaio”, che è il medesimo della pubblicazione. “Custode dell’antico mestiere, lo definisce, un artigiano che “il mestiere lo aveva nel sangue”, che nel periodo successivo al raccolto “lavorava giorno e notte”, esposto all’umidità, in un ambiente pieno di polvere ma ricco di scambi umani e relazioni interpersonali, perchè “Il mulino non era solo un luogo di produzione, ma anche di incontro”. Segue la descrizione dei due mulini ad acqua “gestiti dai Sacripanti, lungo la val Tordino, oggi non più funzionanti”, di cui uno a Villa Ripa e l’altro a contrada San leonardo di Frondarola; si passa poi al ricordo della riproduzione in casa di un piccolo mulino funzionante secondo le antiche regole da parte del padre Luigi, malgrado la perdita della vista, fino alla memoria del recupero delle vecchie macine ormai logorate dal Tordino e dal tempo per ottenerne un nuovo congegno attivato dall’energia elettrica nel 2008 con l’aiuto dell’amico elettricista Mario Falconi.Infine, nell’ultimo capitolo, l’autrice ci presenta “Il sacro prodotto del sudato e amato lavoro: il pane”, “cuore, sudore e orgoglio, magia di mani sapienti, festa della vita”rievocandone le fasi di produzione casalinga, dalla lievitazione con il lievito madre alla lavorazione dell’impasto alla cottura alla conservazione nella madia.
In chiusura, due sue poesie in dialetto su “Lu magnà de ‘na vodde”e “Lli bille timbe”, in cui il rito enogastronomico si intrecciava al ritmo dei lavori nelle varie stagioni e nelle diverse ore del giorno: “Lu porche s’accedave ‘na vodde all’anne,/lu prusciutte, li lumme e li saggicce s’appennave,/sole a Pasque ‘gnille e mazzarelle se magnave,/lu temballe belle adde se preparave pe’ li feste,/…”, e poi ogni giorno ci si alzava presto per andare a lavorare mangiando poco e accontentandosi di quel poco che si aveva perchè solo metà del raccolto “jave a lu socce”. Ma …”Lli bille timbe…/nge mangave ninde!”, dice nell’incipit della seconda poesia la scrittrice, per ribadire in explicit :”Chille scì ca ere bille timbe!/Stricche murte, ma cundinde!”
Elisabetta Di Biagio