Gioconda, così registrata all’anagrafe perché l’impiegato si rifiutò di trascrivere Joyce in quanto nome straniero difficile, Salvadori per cognome paterno, dopo il matrimonio con Emilio Lussu assunse quello del marito.
Nata a Firenze nel 1912 e morta a Roma nel 1998, ha attraversato quasi tutto il ‘900 sempre impegnandosi attivamente nelle lotte contro ogni forma di oppressione della libertà, in difesa degli ultimi. Impossibile definirla con una formula che racchiuda ed esaurisca i molteplici ambiti della sua militanza: è stata partigiana, scrittrice e poetessa, traduttrice, femminista, ambientalista.
Inoltre Sibilla, com’è stata definita in un recente convegno che ha ridestato l’interesse attorno a questa poliedrica figura dal multiforme ingegno, messa un po’ nel dimenticatoio com’è successo a tante donne che pure hanno fatto la storia. Sibilla perché la casa paterna era in un paese vicino Fermo, di fronte ai Sibillini a cui dedicò una raccolta di racconti, ma soprattutto perché lì risiedeva la Sibilla degli Appenninni, una delle tante cui si attribuivano virtù profetiche.
E profetessa lei è stata considerata per avere anticipato istanze e battaglie attuali più oggi che ai suoi tempi. Distopica, oggi si direbbe con un aggettivo molto alla moda, come Orwell in 1984 o Saramago in Cecità o Kubrick in 2001: Odissea nello spazio. Quello che afferma ad esempio in un testo ambientalista del 1977, ‘L’acqua del 2000’, opponendo “…la tristezza dei supermercati capitalistici coi pomodori drogati e la frutta asfissiata nella plastica cancerogena, e la gioia di un minestrone di verdura fresca e di legumi senza i misteriosi additivi chimici degli stregoni moderni”, incontra più la sensibilità dei giovani di oggi che di quelli di allora.
L’aspetto che maggiormente la caratterizza, secondo me, è quello di partigiana.
Lo è stata, infatti, non solo nel senso storico – reale dal 1943 al ‘45, ma anche in senso metastorico – metaforico per avere sempre preso parte contro le ingiustizie, le violazioni dei diritti umani, le sopraffazioni e le prepotenze di regimi o di singoli individui. Mai indifferente alle sofferenze degli oppressi, è stata militante durante la seconda guerra mondiale con nome in codice Simonetta a fianco di Emilio, nome in codice Mister Mill, che sposò con rito civile alla presenza di pochi amici nel ‘40 a Parigi e con il quale ha attraversato i Pirenei e la guerra “mano nella mano”.
E ha continuato a militare idealmente dopo la guerra traducendo i poeti del terzo mondo, preferibilmente quelli privati della libertà di espressione dai governi autoritari, come l’angolano Agostino Neto, il turco Nazim Hikmet, e poi albanesi, curdi, afroamericani. Nella sua autobiografia più completa, dal titolo ‘Portrait’, spiega il motivo di quest’attività di traduttrice: la parola, soprattutto quella poetica, è un formidabile veicolo di idee e anche un paravento per diffondere il pensiero di intellettuali che altrimenti non potrebbero far sentire la loro voce per via politica. E’, infine, un’occupazione che le permette di trovare una sua autonomia rispetto al marito che nel frattempo è stato eletto in Parlamento.
Lei stessa scrive poesie, pubblicate in una prima raccolta del ‘39 con prefazione di Croce e in un’ultima prima della morte, tra le quali ce ne sono alcune dedicate al marito che io considero la più eloquente testimonianza del loro rapporto paritario ma soprattutto complice, solido, profondo “ come l’olivastro e l’innesto”.
Scrive nel 1965, nell’incipit di una lunga lirica “…le nostre vite sono intrecciate/come i vimini del canestro/come l’olivastro e l’innesto/come due storie raccontate/dalla stessa voce.” Nel 1985, dieci anni dopo la morte di lui, nei versi finali di un’altra lunga poesia, confessa che la sua non è una perdita o una mancanza “…perchè sei/sei dentro tante cose/parole immagini idee sentimenti/aspirazioni stimoli movimenti/presenti.”
Molte sono anche le poesie “impegnate”, di presa di posizione di fronte alla storia, come “Scarpette rosse”del 1944, quando ormai era stata diffusa notizia dei crimini compiuti dai nazisti nei lager.
Ha combattuto tenacemente anche la battaglia femminista negli anni ‘70, con cortei di piazza, comizi e pubblicazioni come “Padre, padrone, padreterno”, il cui sottotitolo “Breve storia di schiave e matrone, villane e castellane, streghe e mercantesse, proletarie e padrone”dichiara l’intento di delineare una storia della questione femminile dall’età antica ai nostri tempi, necessaria per prendere coscienza del fatto che nelle epoche e nelle società in cui la donna ha lottato al fianco dell’uomo, contribuendo alla gestione delle attività di famiglia, si è attuata più facilmente una condizione di pari dignità ed opportunità.
Qui prende le distanze dal suo femminismo storico degli anni ‘50, quando era stata tra le fondatrici dell’U.D.I. (Unione Donne Italiane ) e responsabile della sezione femminile del P.S.I., rimproverando alla sinistra di avere considerato le donne solo come bacino elettorale senza impegnarsi a fondo per rimuovere il gap delle pari opportunità.
La sua critica, però, si rivolge anche contro le donne che nelle battaglie di allora si concentravano troppo sul loro corpo (“L’utero è mio e lo gestisco io”, slogan ricorrente nei cortei ) e contro i maschi, ammonendo che il vero bersaglio della lotta era la società con le sue ingiustizie. Uomo e donna, dunque, debbono essere compagni di lotta per l’autonomia, per il lavoro dignitoso e ugualmente retribuito, nella condivisione dei carichi di lavoro domestico e dell’impegno con i figli.
Anche in questo ambito, Joyce è di una straordinaria attualità, proponendo una futuribile “estensione della missione materna al padre, che ha pari responsabilità nella generazione di una nuova vita….Il primo passo è far prendere coscienza ai padri che, se focolare ci ha da essere, debbono esserne gli angeli anche loro…”. Oggi sta diventando realtà (quasi).