Sull’ onda del periodo precedentemente trattato condurremo oggi qualche ulteriore osservazione relativa ad un’epoca veramente fitta di fermenti e mutamenti essenziali.
Lo faremo rivolgendo l’attenzione alle opere d Max Ernst, un poliedrico autore tedesco, naturalizzato francese, che, negli anni venti dello scorso secolo, operò anche in Dada, come vedemmo, è abbracciò poi un surrealismo meno graffiante di quello che capovolgeva, per principio, ogni logica.
In genere quando si parla di “movimenti” si dà loro un nome, come fosse una specie di delimitazione in cui rinchiudere tutti quelli che ricadono, in quel certo momento, sotto un comune denominatore anche se sappiamo che non è affatto così.
Gli stili convivono, si accavallano, si fondono. Poi si giunge, per ogni autore, a distinguere la posizione che ha scelto con maggiore convinzione e che sarà quella deputata a connotarlo. Così, ad esempio, Giorgio De Chirico, per la predilezione di significare le sue opere attraverso una lettura delle cose effettuata in un tempo dell’anima, non accessibile a tutti, si stacca dalle correnti contemporanee e si autodefinisce “pittore metafisico”.
Per tornare a Max Ernst ricordiamo che egli non fu solo un pittore ma scrisse, scolpi, si occupo di cinema e indagò la psiche umana con la voglia di riuscire ad esprimerla.
Una tecnica gli parve più adatta a catturare le emozioni del subcosciente, era il “frottage” che iniziava col passare una matita, od altro mezzo, sopra una carta o una tela poggiate su una superficie dura e rilevata per fissarne le tracce. Il bello veniva dopo, quando quei segni, sotto la spinta dell’inconscio, venivano rielaborati per divenire opera d’arte.
Attingeva a stati d’animo fissati tra la veglia e il sonno, archiviati nella memoria volontaria e fatti riemergere nel momento in cui quelle strane impronte rilevate qua e là suscitavano l’ispirazione.
Mostriamo ora, di Max Ernst, un’opera ad olio, l’ “Aquis submersus”, conservata alla Stadel Museum di Francoforte, nella la quale l’artista assume più di una volontà espressiva tanto da presentarla sviluppata in più scene.
Quella che osserveremo per prima lascia un fondo di sgomento nell’offrirci la visione elegante e descrittiva di un paesaggio sommerso, come vuole il titolo, all’interno del quale un grande uccello domina la scena. Le sue presunte ali sono somiglianti alle braccia di un nuotatore. Attorno, una vegetazione bluastra ospita qua e là infiorescenze rosate, frutti chiari, come si aprissero dei nuclei vitali fra quelle foglie sommerse. Vita, forse, che in realtà non avrebbe potuto esplicarsi perché fuori del suo elemento naturale, come l’uccello che vive sott’acqua.
Non azzardiamo oltre. Sarebbero interpretazioni arbitrarie. Limitiamoci a godere del suo estetismo inquieto, così distante dalla serenità di un altro grande di quel tempo, Marc Chagall.
Per una seconda scena dell’ “Aquis submersus”, Ernst fa ricorso ad un segno quasi tecnico, molto vicino al tratteggio di Giorgio De Chirico. Mostra una piscina contornata da costruzioni mentre nel cielo splende la luna piena. Una figura umana appare semi immersa nell’acqua, a testa in giù e gambe dritte.
A monte di questa seconda proposta sembra essere stata presente all’artista una fonte, una novella dello scrittore Theodor Storm, pure tedesco e quasi contemporaneo del nostro ed anch’egli portato ad una narrazione ai limiti del surreale. La novella narra di un bambino morto annegato in uno stagno.
Questa derivazione non appare, tuttavia, troppo sostenibile, in quanto il soggetto umano , oltre ad essere“aquis submersus” solo a metà, è indiscutibilmente vivo ed eretto, come se si fosse appena tuffato. Il tuffo, però, appare ineffettuabile vista la posizione del corpo che, rispetto all’entrata in acqua, è assurda.
Il richiamo al dramma potrebbe essere stato affidato ad una figura che appare davanti alla piscina e dà la schiena al “submersus”. Il suo aspetto è quello di una piccola mummia in piedi o di un sarcofago visto in verticale. Ma questa figuretta poggia a terra trasformando la sua parte inferiore in un semplice, sottile cilindro, richiamando così anche la sagoma di una sorta di chiave. L’effigie rotonda che dovrebbe essere il viso di questo enigma visivo è l’unico particolare che esprimere sgomento.
Due ombre oblunghe compaiono di qua e di là della mummia, ma non si evince da quale corpo siano proiettate.
Siamo in un clima di surrealismo mentale, dove la distorsione è nella logica primaria delle cose, non è fiabesca né onirica, sovverte volontariamente le leggi fisiche e l’evocazione dei sentimenti da parte di chi guarda è piuttosto un frugare in se stessi alla ricerca di una lettura decodificante.
Ed ora, al fine di dimostrare quanto diversi fra loro possano essere i “momenti” in uno stesso artista, osserviamo, sempre di Max Ernst, una grande tela ad olio conservata al Museo Ludwig di Colonia, dal titolo “La vergine che castiga il Bambino Gesù davanti a tre testimoni: Andrè Breton, Paul Eluard e lo stesso artista”, ed è l’unica volta che, in arte, si rappresenta la Madonna in un atteggiamento così veristicamente umano: la Vergine prende a sculaccioni il suo divin figlioletto.
Che Maria abbia avuto occasione di picchiare il piccolo Gesù è alquanto improbabile tuttavia il disegno riconosce la sacralità delle due figure adornandole di aureola anche se quella del bambino scivola via dalla sua testa mentre riceve il castigo.
Ernst sembra voler così affermare il primato di Maria, che, almeno dal punto di vista umano, in quel momento di prima infanzia del figlio, la autorizza ad educarlo, salvaguardarlo e proteggerlo. Per questo l’aureola resta ferma sul suo capo, mentre quella del bambino cade a terra in segno di giusta sottomissione all’autorità materna.
Il pletorico titolo dell’ opera ha una sua ragione di essere, difatti i personaggi testimoni della scena che compaiono nella piccola finestra sono artisti della stessa cordata di Ernst, sono i nuovi profeti dell’arte, quelli che affermano la libertà e il diritto di rappresentare ciò che vogliono come vogliono.
Ma la plasticità di questa imponente Madonna che svolge il suo compito genitoriale con la volontà educativa di una popolana è affascinante. Non è vestita di celeste, come di consueto, anzi il suo abito rosso non è nemmeno troppo accollato: fa caldo in Palestina e Maria non vive in ozio.
In sostanza, la Madonna e nostro Signore Gesù Cristo, in questo angolo di pittura fuori del tempo e sotto un cielo cocente ed azzurro, restano fortemente loro, e il lato umano, interpretato da un artista che in quel momento così lo sente, nulla toglie al divino in cui tutti crediamo.