Pandemia: raccogliamo il positivo
Zoom, Skype, Google meet esistevano già, ma si usavano solo per necessità e in via eccezionale, perché si preferiva il contatto umano faccia a faccia. Con la pandemia questi strumenti di comunicazione sono diventati pane quotidiano perché si lavora da casa, il che ha indubbi vantaggi: condizioni di maggiore sicurezza, riduzione del rischio di contagi, diminuzione del traffico, del tasso di incidenti stradali e dell’inquinamento, riduzione consistente dei tempi morti e dello stress degli spostamenti quotidiani.
Lavoratori e lavoratrici hanno ricavato un indubbio vantaggio nel lavorare da casa, dormire un po’ di più, potersi occupare della casa, dei figli, delle pratiche da sbrigare, finalmente ristrutturare qualche angolo trascurato della casa, il giardino, riordinare gli armadi e i cassetti solitamente riempiti alla rinfusa, riscoprire un hobby, scrivere un diario, un libro, dipingere un quadro, apprendere qualcosa per cui non si è avuto mai il tempo. Non ultimo vantaggio è liberarsi della cura talvolta ossessiva del corpo e dell’abbigliamento (per le videochiamate basta un golfino).
Si può lavorare meglio e più velocemente una volta raggiunto l’ampio dispiegamento delle potenzialità del digitale, il quale ha vinto sull’analogico mostrando alle persone, alle famiglie, alle aziende quanto meglio e in modo più funzionale possono essere fatte le cose. Non è da poco prendere in considerazione anche il tempo guadagnato per l’intelligenza (una buona lettura, un buon film…) e per l’anima, ossia il tempo dello “spirito”, che solitamente, presi dalla frenesia dei ritmi di vita, finisce all’ultimo posto delle priorità.
Tuttavia la pandemia rivoluzionando il mondo dell’economia e accendendo i riflettori sui lavori del futuro, li ha spenti su quelli che pian piano entrano nel bagaglio del passato. Chi ha familiarità col digitale e magari ha fiuto nel percepirne l’avanzata, ha colto l’opportunità di ampliare la propria zona di influenza lavorativa e ha aumentato le entrate. È evidente a tutti che il divario tra ricchi e poveri è cresciuto.
Per vivere adeguatamente nel mondo digitale bisogna avere un know how di tutto rispetto, disporre di saperi e di abilità intellettive che non è facile acquisire se si è anziani, con qualche problema di salute e non ci si sente più in grado di cambiare rotta ed eventualmente frequentare specifici corsi. Infatti la progressiva digitalizzazione e automazione della produzione ha spostato la competizione dalla riduzione dei costi alla creazione di prodotti e servizi di qualità. Diminuisce la necessità della manodopera intenta a lavori ripetitivi alla portata di tutti e aumenta quella di persone capaci di innovazione e creatività. Chi si occupa di Risorse Umane dovrà sempre più concentrarsi sulla selezione di tali persone e dovrà porre la massima attenzione a conservarle per non farsele sfuggire.
La domanda è: come faranno coloro che non riescono a stare al passo con i tempi? Come potranno cavarsela? Se prima chi aveva anche solo la terza media poteva aprire e gestire un negozio o un bar vivendo dignitosamente – e in non pochi casi guadagnando bene – ora con alta probabilità viene tagliato fuori dal mercato del lavoro, proprio per avere un basso livello di istruzione. Occorrerebbero impegno e buona disposizione a ricominciare ad apprendere, come pure avere risorse e tempo indispensabili per acquisire le competenze necessarie, il che non è facile per chi concentra tutte le sue risorse sulla sopravvivenza. Si realizza proprio ciò che prediceva Touraine: la povertà culturale diviene molto più incisiva di quella economica.
La pandemia non ha pietà e riduce le entrate quando non riduce sul lastrico quanti non sono in grado o non vogliono aggiornarsi e restano fermi all’economia analogica. Non a caso vediamo chiudere attività notevoli ben radicate sul territorio, con conseguente impoverimento dei servizi, perché non riescono a reggere alla concorrenza delle televendite.
L’Italia non è messa bene di fronte a questi cambiamenti. Secondo il Sole 24 ore abbiamo: “quasi 13 milioni di adulti con un livello di istruzione basso” (categoria Isce 0-2, ossia terza media), il 39% dei 25-64enni (intorno ai 33 milioni). I “circa 13 milioni di adulti italiani con basso livello di istruzione rappresentano circa il 20% della popolazione adulta europea con un basso livello di istruzione (circa 66 milioni di individui totali)”. Dunque più di un adulto su due (il 53-59% dei 25-64enni) dispone solo di conoscenze “obsolete” o che presto diverranno tali, nonostante la laurea e persino se si è nativi digitali. Tutte persone che avrebbero necessità di essere riqualificate. Non c’è tempo da perdere.
La fine dell’emergenza sanitaria, la cessazione degli aiuti di Stato e in specie del reddito di cittadinanza e della cassa integrazione faranno sempre più emergere la reale situazione di povertà e disoccupazione. Come invogliare questa popolazione ad acquisire le conoscenze indispensabili all’affacciarsi del nuovo modo di vivere? Chi si occuperà di farlo? Difficile dare risposte data l’incertezza dei tempi. Certo è che nessuno dovrebbe essere considerato uno scarto, un rifiuto inevitabile del progresso: la storia insegna che quando si procede in questo modo si distruggono le civiltà.
Perché non pensare che anche quanti non staranno al passo con il digitale avranno da insegnare qualcosa? Nel silenzio della casa, potranno “guadagnare” il tempo della riflessione, della saggezza, della preghiera personale/on line, della lettura, di rapporti più sapidi e solidali. Potranno distribuire risorse immateriali ugualmente indispensabili a vivere bene. Stanchi e affaticati dalla frenetica attività economica, politica, sociale, di intrattenimento e spettacolo, forse chi è al passo con i tempi potrà sentirsi sollevato dal rivolgersi a persone che il mercato giudica improduttive ma che nelle relazioni interpersonali saranno in grado di restituirci il gusto di ciò che non può essere oggetto di mercato, la gioia della pura espressività, il discernimento dei valori, la grazia dell’amore e della fede.