“Dostoevskij dice che col passare degli anni tutti i nostri sogni si realizzano, ma in una forma così snaturata da risultare irriconoscibili. Io riesco a riconoscere i miei sogni degli anni anteguerra”, confessa a se stesso Janusz Korczak, autore del diario autobiografico che in uno stile frammentato di difficile lettura, tra riflessioni di carattere filosofico e resoconto di fatti reali drammatici, ci fornisce una testimonianza lucida degli ultimi mesi di vita di 200 orfani ebrei diretti e curati dal pediatra, pedagogo e scrittore Korczak.
Il dottore aveva fondato e diretto già da quasi 30 anni una “Casa dell’orfano”quando venne inviato nel ghetto di Varsavia con i “suoi bambini”, dopo l’invasione nazista della Polonia, insieme a tanti altri ebrei che non erano riusciti a fuggire all’estero o che non avevano voluto compromettersi con il regime. Nel ghetto, per la verità, alcuni si fanno complici del potere e vivono nell’abbondanza mentre altri muoiono di fame per strada o a malapena riescono a sopravvivere tra gli stenti, come accade ai ragazzi dell’orfanotrofio, malgrado gli aiuti che il dottore riesce a strappare ad ex assistiti o ad amici. E nonostante gli inviti a lui rivolti di lasciare il ghetto e avere salva la vita, quando nel 1942 fu ordinato dai nazisti di trasferire i 200 ragazzi nel campo di sterminio di Treblinka, il pediatra-pedagogo scelse di salire sul treno con loro per realizzare quel sogno di ragazzo, di dedicare la vita a quello che lo appassionava. La sua passione era il progetto di cambiare il mondo, come confidava alla nonna mentre lei gli preparava “lo zibibbo” dicendogli “Per il mio filosofo”, e di voler eliminare ogni forma di denaro,”perchè non ci fossero più bambini poveri, sporchi, malvestiti e affamati”. Non gli era riuscito di cambiare il mondo, come spesso succede ai sognatori che soccombono di fronte alle atrocità della storia, ma certo aveva lottato tutta la vita per questo progetto che lo appassionava. E come dice l’attore che impersona il pediatra nel film Dottor Korczak, realizzato nel 1990 dal regista Andrzej Wajda, proprio in apertura:ognuno ha una sua passione, chi per le donne, chi per le corse dei cavalli, chi per il gioco; lui ha quella “di servire il bambino e la sua causa”, scegliendo anche di non sposarsi e non fare figli suoi, perchè era nato schiavo in quanto “ebreo polacco sotto l’occupazione zarista” , e uno schiavo non può avere figli.(Lo scrisse il dottore in una lettera a Mieczylaw Zybestal nel 1937).
Il suo lavoro di pedagogista fu veramente al servizio della causa del bambino, poichè aveva come fulcro il riconoscimento della sua dignità e il suo diritto al rispetto, alla sincerità e alla giustizia, al vero della vita e della morte senza edulcorazioni e ipocrisie: una vera rivoluzione copernicana per la pedagogia del suo tempo. Per raggiungere questi obiettivi, istituì un tribunale dove i ragazzi stessi amministrassero la giustizia, perchè è vero che bisogna perdonare, ma è ancora più vero che è necessario essere giusti per non creare disordine, cosa che favorisce i disonesti e “ferisce anzitutto la gente buona, onesta e coscienziosa”. Pubblicò inoltre un giornale i cui redattori e artcolisti fossero i ragazzi, perchè si interessassero alla vita attiva e alla obiettività dei fatti; fece in modo che lavorassero in tutti i settori per sviluppare il loro senso del dovere civico e dell’impegno concreto; stimolò soprattutto le loro curiosità intellettive con la lettura, la documentazione, il teatro, sebbene non ci fosse molto tempo per le attività culturali e lo stesso K. fosse costretto a scrivere il suo diario di notte. Favorì un approccio sereno e consapevole alla morte, mettendo in scena anche il momento della fine senza veli, metafore o eufemismi. Ad esempio, fece recitare “Il corriere”dello scrittore indiano Rabindranath Tagore: la storia di un bambino malato, rinchiuso nella propria cameretta, che muore sognando di correre per i campi. Con orgoglio ed emozione, il dottore riferisce nel suo diario che un bambino gli aveva detto, mentre lasciava la Casa dell’Orfano:”Se non fossi stato qui, non sarei mai venuto a sapere che al mondo c’è della gente onesta, che non ruba. Non saprei che si può dire la verità. Non saprei che al mondo ci sono delle leggi giuste.”