Molti anni or sono – anzi, oltre mezzo secolo fa – allo Zecchino d’Oro, il presentatore, Cino Tortorella (al tempo, abbigliato da Mago Zurlì) chiese a una bambina di sei anni, iscritta in seconda elementare: «Che cosa hai imparato in prima?». La bimba aggrottò le ciglia, ci pensò su ed infine esclamò trionfante: «Ho imparato…ho imparato che in italiano l’unica parola che si scrive con due “q” è “soqquadro”!».
E noi, noi che cosa abbiamo imparato nel corso del 2020? Tante, tante cose e, tra queste, molte che non avremmo mai voluto imparare. Gli insegnamenti più tragici ci sono stati ammanniti – tramite i vettori più sadici: i media – dall’insegnante più mefistofelico: il coronavirus. Onnipresente nelle conversazioni, viene denominato in tutti i modi, propri e impropri.
Quanto a me, intendo qui eludere qualsivoglia contesa lessicale al riguardo, e preferisco alludere al virus con l’appellativo “Innominato”, che ne rende la connotazione sinistra e rimanda al suo carattere ancora misterioso di ospite indesiderato e invadente. Forse, l’Innominato sarà vieppiù “nominabile” man mano che lo conosceremo meglio, se è pur vero che nominare qualsivoglia realtà significa attestare che se ne è compreso il senso, si è in grado di distinguerla da tutto il resto e se ne vanno chiarendo i rapporti con ciò che altro da essa. Da Adamo in poi, dare un nome a qualsiasi cosa significa “possederla” sul piano concettuale, conoscere ciò che essa è. Ciò non vale ancora per il quid cui alludo qui con il termine Innominato. Per nominarlo non basta saperne il genere prossimo (Sars) poiché è necessario conoscerne la differenza specifica – quella x dispettosa e reticente – che sfugge tuttora ai dispositivi di ricerca di schiere di infettivologi e virologi, che pure sono già in grado di mapparne le “divagazioni” genomiche. La sigla CoV-2 è forse la foglia di fico sovrapposta a tale ignoranza.
L’Innominato è diventato ormai una sorta di contenitore di fenomeni, processi e simboli. Gli interminabili dibattiti su tali “contenuti” hanno imposto all’attenzione diversi termini scientifici e tecnici che vanno aggregandosi al lessico corrente. È superfluo aggiungere che si tratta per lo più di parole in inglese. Ciò vale in modo particolare per un Paese esterofilo come il nostro. Come era prevedibile, in altre Nazioni neolatine quali la Francia e la Spagna il fenomeno è tuttora più contenuto.
La parola inglese entrata con la massima prepotenza nel nostro lessico quotidiano è senz’altro lockdown. Si tratta di un termine che nella lingua inglese aveva avuto ampia diffusione in seguito all’attacco alle Torri Gemelle, allorché si decretò il lockdown dello spazio aereo civile. In conformità alle consuetudini linguistiche vigenti nell’Esagono, i francesi hanno reso la parola lockdown con confinement. Da noi, invece, nessuno ha tentato di tradurla in italiano. Ora, a distanza di circa un anno dal suo apparire, è superfluo provarci: da tempo, ne fanno ampiamente uso anche i bambini delle elementari, quegli stessi che resterebbero più che perplessi all’udire la parola “soqquadro” (e chi mai, tra gli adulti, la pronuncia più?). In effetti, è difficile tradurre in italiano lockdown con una parola singola. Termini come isolamento, confinamento, blocco non sembrano adeguati. L’infinito verbale – to lockdown – si potrebbe tradurre con “blindare”. Ad ogni modo, ormai abbiamo assimilato questo termine e ce lo teniamo: la sua ascrizione all’italiano si può considerare “blindata”.
E, già in primavera, nei dibattiti sull’Innominato, ha preso piede un’altra parola composta: superspreader. Costui è il talentuoso del contagio e, perfino da asintomatico, riesce a infettare un numero molto elevato di persone. Il termine si potrebbe rendere con “superdiffusore”, ma anche in tal caso si preferisce per lo più assimilare lo straniero. Quanto al famigerato droplet, la traduzione letterale (“gocciolina”) sarebbe meno soddisfacente e bisognerebbe ricorrere a una circonlocuzione; una ragione in più, questa, per fagocitare, senz’alcun sussulto di purismo linguistico, anche quest’altro termine.
Un’altra parola composta è stata introdotta nel lessico all’apparire dell’Innominato, allorché si è svolto il dibattito circa l’origine del contagio. Si tratta di spillover, “traboccamento”: to spill over è “versare sopra”. La si è tradotto talora, in conformità al senso più che alla lettera, con “salto di specie” (l’Innominato è forse “saltato” sino all’uomo a partire dal pangolino, dal pipistrello oppure…?). In questo caso, sembra che la traduzione stia “funzionando”. Detto per inciso, Spillover è il titolo di un libro sulla genesi delle epidemie, pubblicato nel 2012 dal divulgatore scientifico David Quammen (l’edizione italiana risale all’anno successivo). Va aggiunto che spillover, nel lessico dell’economia– ove lo si è tradotto, in modo infelice, con “sgocciolamento” – designa il fenomeno per cui l’incremento di ricchezza in una classe sociale “traboccherebbe”, riversandosi in modo benefico sulle altre. Qui il condizionale è d’obbligo: l’esponenziale accentrarsi della ricchezza in poche mani su scala planetaria vale a sconfessare la possibilità di qualsivoglia “sgocciolamento”, ove si eccettui quello che può fiondarci addosso l’Innominato.
Adesso, a campagna vaccinale avviata, le polemiche sul tipo di siringhe da usare hanno scodellato per noi un altro anglismo, costituito da un binomio di termini: luer lock. Si tratta della speciale siringa che permetterebbe una maggiore precisione nell’inoculare il vaccino rispetto alla tradizionale siringa con il cappuccio, la quale è invece più sicura per l’operatore. Nella diatriba, chi avrà la meglio: i fautori della precisione o i pasdaran della massima sicurezza? Lo si vedrà senz’altro a breve.
In conclusione, un altro quesito, più generale, è d’obbligo. Le suddette e le altre parole straniere arrecateci dall’Innominato avranno lunga vita nel lessico italiano? Sopravviveranno alla vittoria del genere umano su quell’esserino che, per il momento, è bene chiamare ancora Innominato?
Lo scopriremo solo vivendo o, per meglio dire, lo scoprirà chi vivrà.