Di quando in quando frammezzeremo dunque l’analisi delle opere analizzando brevemente i motivi fondamentali, le correnti, le suggestioni che le hanno informate, gli accadimenti umani dei quali spesso costituiscono l’esasperata voce di reazione.
Iniziamo allora con il “dadaismo”, fenomeno strano e breve ma molto importante per tutta una sequenza di suggestioni e fatti culturali che ne sono conseguiti. Un fenomeno che coinvolse un po’ tutti i campi dell’espressione artistica compresa la letteratura che assunse in esso un dismorfismo totale. Troviamo qui Tristan Tzara, scrittore di origini ebraiche, che nel 1922, pubblicò il “manifesto” del movimento, nel quale tutto si concentrava in questa definizione “dada means nothing” ( Dada significa niente). E Guillaume
Apollinaire le cui “poesie” parlano da sole.
Il “dadaismo” o, come molti preferiscono dire, il “dada”, è stato un movimento internazionale nato a Zurigo nel 1916, poiché solo nella neutrale Svizzera artisti e pensatori potevano esprimere tutto il loro disgusto per quanto stava accadendo Esso fu ispiratore di straordinarie libertà. Vi si racchiudeva una sorta di “indifferenza attiva” verso tutto ciò che riguardava primo conflitto mondiale. Ancora di più, si voleva contrapporre l’estremismo della “derisione” a quello della “distruzione”, un “basta” definitivo all’esaltazione epica, come spesso avveniva in arte, delle più grandi scelleratezze umane.
Prendeva vita una sorta di anti-arte che portava agli estremi il “futurismo”, movimento già in pieno sviluppo, proponendo un oggetto qualsiasi, privato del suo normale contesto e della sua funzione originaria e lo faceva diventare forma artistica chiamata a rappresentare il sovvertimento di ogni cosa. Tale volontà era basilare e l’opera d’arte diveniva un incontro di tutti i contrari e di ogni incoerenza, così come era in quel momento la realtà e, troppo spesso, la vita.
Grande protagonista fu Marcel Duchamp che operò a dimostrazione di ogni umana incoerenza. La sua celebre “ruota di bicicletta” (che mostriamo in fondo) – il cui originale è andato perso – è al Philadelphia Museum of Art. In essa, la ruota, simbolo di movimento, appare issata alla rovescia su uno statico sgabello, a rappresentare con chiara semplicità un contrasto “in re”. La sua arte è insieme ironica, provocatoria e intellettuale. Sconvolge volutamente l’ordine delle cose per arrivare ad esprimere solo un “concetto” come assoluta espressione di pensiero senza attesa di avalli e riconoscimenti.
Nel “dada” si mosse pure il tedesco Kurt Schwitters che, uscito dalla prima guerra mondiale con l’animo a pezzi, si propose di elevare a forma d’arte tutto il disastroso insieme di cose rotte, spaccate, che il conflitto aveva lasciato in eredità. Così egli, scrittore, pittore e scultore quale era, decise di cominciare a produrre opere che erano nient’altro che un’accozzaglia di frammenti di cose, le più disparate, uniti insieme. Nascevano cosi i suoi celebri “merzbau”, che proponeva a manifesto del suo pensiero.
Fece addirittura attaccare una grande tela bianca sulla parete di un locale pubblico dove chiunque poteva disegnare o dipingere o incollare ciò che voleva, collaborando così al più composito dei “merzbau”.
Fece addirittura attaccare una grande tela bianca sulla parete di un locale pubblico dove chiunque poteva disegnare o dipingere o incollare ciò che voleva, collaborando così al più composito dei “merzbau”.
Non è difficile pensare che la “pop-art” abbia trovato – tout court – in tali atteggiamenti un indubbio spunto così come è innegabile la presenza del dadaismo in tutti gli sviluppi dell’arte successiva. La grande vitalità di questo movimento si è trasferita interamente nella storia dell’arte del XX secolo e sostanzialmente informa tutta la rivoluzione del linguaggio artistico contemporaneo.
Gli artisti del nostro tempo hanno proclamato appieno la perfetta autonomia dell’arte da ogni canone prestabilito e la sostanziale differenza tra la rappresentazione di una forma e la presentazione della stessa attraverso il personale gusto ed istinto dell’autore, cioè attraverso la forza del suo stile. L’arte che ne è uscita resterà grande per la potenza con cui si è voluta esprimere a tutto vantaggio della libertà e della fantasia.
Non un solo critico ha visto in tutto ciò una sorta di composizione dell’eterno conflitto tra visione plastica, quella che si ispira alla realtà così come è, e visione pittorica, quella rivisitata dallo spirito dell’artista, con assoluta vittoria della seconda.
Non sono più enunciabili categorie assolute di giudizio perché l’arte stessa è soggetta a tutti i mutamenti delle personalità artistiche, delle epoche e del gusto ad esse legato. Fuori di questi presupposti la creazione artistica cesserebbe di esistere.
E si potrà partecipare di tutti i gusti e gli stili che l’intera storia dell’arte ci porge, solo che si sappia cogliere, di ciascun momento e di ciascun artista, antico o modernissimo, il puro nucleo dell’opera, il momento creativo che la ha resa arte e si potrà giungere, anche con presupposti non strettamente professionali, ad una propria visione di ciò che si ha sotto gli occhi, cercando di afferrarlo, in tutta umiltà. Questo processo ci renderà, comunque, almeno partecipi di quell’opera, in quel momento e nello spirito di quell’artista.