Correva l’anno 1984. Tre ragazzi livornesi, per gioco, riuscirono a raggirare l’apparato museale e artistico, mettendo in luce la natura super esclusiva, autoreferenziale e autoassolutoria della critica, e dando vita all’avvenimento più dadaista e dissacrante di tutto il Novecento. Avevano, infatti, deciso di ‘scolpire’ due teste (la terza era stata realizzata indipendentemente da un altro signore) di Modì dopo aver saputo che si stava dragando il canale in cui Modigliani, insoddisfatto del suo lavoro, aveva deciso di buttarle. E così si gridò al fantastico ritrovamento diopere certamente di Modigliani, i critici attestarono l’età della pietra usata: almeno cento anni…I livornesi, privi di testimonianze artistiche gongolavano data la rivalità con Pisa ricca di un patrimonio indiscutibile, la stampa fece da cassa di risonanza e gli ‘studiosi’ certificarono l’autenticità delle opere ritrovate! Dopo qualche tempo la verità venne a galla e tutto finì nel nulla non senza gravi conseguenze per la direttrice del Museo livornese e per il discredito inevitabile piombato sui critici: la superficialità di certi super esperti di arte che precipitosamente appena videro le teste, oggettivamente moltobrutte, cominciarono a dire che erano vere, perché avrebbero voluto che fossero vere.
E non basta. Scrive Luca Giannelli: “… Nel 1967 il New York Times riportò la notizia in prima pagina che il cavallino di bronzo, opera attica del 480 a.C. esposta al Metropolitan Museum, era un falso. L’annuncio aveva del clamoroso e infatti fece subito il giro del mondo gettando nel panico la prestigiosa istituzione newyorkese e quanti – l’Enciclopedia britannica, per esempio avevano sempre dato molto risalto al bronzetto in questione. Cinque anni dopo, però, nel1972, sempre in prima pagina, sempre lo stesso New York Times, pubblicò la notizia che la scultura bollata come un falso è invece autentica a tutti gli effetti: lo certificano senza ombra di dubbio quattro esperti del settore. Adottando un certo linguaggio in voga oggi, per questo clamoroso uno-due sferrato nel giro di appena un lustro, si potrebbe essere tentati di parlare di fake news o di fact checking, (notizia falsa e accertamento dei fatti). Sarebbe un errore, perché se c’è una cosa lontana dalla dimensione “esatta” della certezza assoluta e scientificamente provata, questa è proprio l’arte. Affidata com’è all’estro e all’istinto, e dell’intuito prima ancora che alla conoscenza, abituata a costeggiare il vuoto, a raccontare da che uomo è uomo la “disarmonia prestabilita” del mondo. Marshall McLuhan, uno che con la comunicazione aveva una certa dimestichezza, non per nulla sosteneva che con l’arte puoi sempre farla franca. Così come stabilì a suo modo la Corte dicassazione, quando sentenziò che l’attribuzione se non è vera può essere “veridica”, quindi che il venditore di un’opera falsa può anche essere in buona fede.
Di qui la sostanziale impunibilità di tanti raggiri (vedi il recente crocifisso “di Michelangelo” acquistato per 3 milioni all’epoca del ministro Bondi), di qui gli impossibili e quasi patetici tentativi di mettere ordine in un territorio che ordinato non potrà mai essere, come per esempio l’idea di costituire una commissione formata da magistrati, professori universitari, funzionari delle soprintendenze ed esperti designati dalle associazioni dei mercanti d’arte con obiettivo di creare un albo dei periti incaricati di stabilire “con certezza” l’attribuzione di un’opera d’arte”.